lunedì 11 agosto 2025

2.8. Bar Paradiso (Finalmente Emmanuel e Gianni si rivedono) - Episodio conclusivo della Seconda stagione

(settembre 1998)

 

(Rumore di bar)

- Eccomi.

- Grazie di essere venuto.

- Di niente.

- Siediti, non restare in piedi.

- Vuoi che parliamo qui, in mezzo alla gente?

- Sì, per favore. Se non ti dispiace.

- Okay.

- Il Bar Paradiso è uno dei miei preferiti: ti piacerà, vedrai. Amo il suo ambiente caldo e informale. Si mangia molto bene e c’è una scelta ricchissima di vini naturali e biologici.

- Ti ringrazio, ma non ho intenzione di cenare qui, e neppure di bere vino.

- Dicevo per dire. Sai, questo bar nasconde un piccolo segreto: il “Paradiso sotterraneo“, un’area accessibile solo tramite una botola.

- Davvero? Interessante. Sei sempre una miniera di informazioni gastronomiche e di curiosità locali. E dove si va a finire attraverso quella botola?

- In un rifugio sotterraneo dedicato a degustazioni e serate speciali.

- Fantastico. Peccato non poterne approfittare.

- Già, peccato davvero. Cosa ti ordino? Il solito succo di ananas?

- Sì, grazie.

- Cameriere, per favore, un succo di ananas bello fresco, ma senza ghiaccio, e un Campari soda con una fettina di arancia.

(Silenzio)

- Mi dispiace di averti perseguitato per telefono per tutto questo tempo: non è nel mio stile, credimi. Ti chiedo scusa.

- Ci sarà un motivo se lo hai fatto, immagino. Sono qui per saperlo.

- Fra poco te lo spiego. Ma parlami un po’ di te: come ti trovi con il tuo nuovo fotografo?

- Normale. Mi fa le foto e stop. Bravo è bravo.

- Sì, Guido è uno dei migliori in zona. E per il resto? Come va con il tuo vivaio e il tuo bambino?

- Discretamente in entrambi i casi. Il vivaio inizia a vendere abbastanza e il bambino bene o male accetta la mia presenza, anche se non sa che sono suo padre.

- Immagino che la cosa ti dia un po’ di disagio.

- Sì, decisamente. Ma non mi va di parlarne adesso.

- Ti sei tagliato un po’ i capelli, vedo.

- Sì, un pochino: Guido li preferisce più corti.

- Stai bene lo stesso, ma non esagerare: come ti ho sempre detto, il tuo tipo fisico richiede i capelli lunghi. Guido non lo capisce perché è etero, e gli etero non capiscono un cazzo di estetica. Sono sempre volgari e prevedibili. Non sarà un caso, evidentemente, che tutti i più grandi artisti fossero gay.

- Sì, l’ho sempre pensato. Vedo che tu invece ti sei fatto crescere i capelli.

- Sì, avevo voglia di sembrare un po’ meno ovvio e insignificante.

- Non sei mai stato ovvio e insignificante, Gianni. Sbaglio o li hai anche tinti un po’?

- Sì, ho fatto una tinta castana per… per cercare…

- Per cercare di piacere di più ai ragazzi?

- L’ho fatta ieri, Emmanuel: non ho ancora visto nessun ragazzo.

- Ora non vorrai farmi credere di averla fatta per me, tanto più che a me sono sempre piaciuti i tuoi capelli grigi. Ad ogni modo i capelli così ti stanno benissimo, e anche gli occhialetti rotondi: sembri una specie di D’Artagnan intellettuale, hai una nobiltà d’altri tempi.

- Sei sempre gentile con me, passerotto… Scusa, non volevo chiamarti passerotto: mi è sfuggito.

- Va bene così, Gianni. Ehi, ma su con la vita: perché sei così depresso?

- Ti ho fatto venire fin qui appunto per spiegartelo.

- Allora fallo, per favore.

- Hai fretta di andartene?

- No, non ho nessuna fretta.

(Sospira)

- Prima di tutto devo chiederti scusa: quel giorno con Aaron mi sono comportato in un modo ignobile con te.

- Sì, assolutamente. Mi hai offeso a morte, Gianni.

- Lo so. Voglio spiegarti perché l’ho fatto.

- Forse semplicemente perché ti piaceva Aaron e volevi sbarazzarti di me.

- Sei completamente fuori strada, e fra l’altro, scusa se te lo faccio notare, non ragioni in modo lucido: se così fosse, ne avrei approfittato per escluderti dalla mia vita, non ti avrei certamente ossessionato con continue telefonate e richieste di rivederti.

- Sì, ci ho pensato anch’io, ma ho creduto che fosse solo un po’ di rimorso per avermi fatto stare tanto male.

- Sei stato davvero tanto male?

- Da morire.

- Allora è proprio come pensavo.

- Cioè?

- Poi ci arrivo.

- Come sta Aaron?

- Immagino che stia benissimo: è negli States e fa il mantenuto di una miliardaria attempata.

- Ma dai: s’è messo a fare il gigolò?

- Esattamente. Del resto, era nelle sue corde.

- Era simpatico, Aaron: se non fosse che ne ero stupidamente geloso…

- Sì, molto stupidamente, credimi: io non avevo occhi che per te.

- Non si sarebbe detto. A proposito, com’è andata la campagna pubblicitaria per la Smart Fortwo?

- Malissimo, gioia: purtroppo avevi ragione tu, hanno trovato ridicola l’idea di due ragazzoni grandi e grossi che stanno insieme in una Smart. Hanno affidato la campagna a un altro fotografo molto meno originale, che come al solito ci ha messo un paio di femmine. L’apoteosi della prevedibilità.

- Mi dispiace, Gianni, sul serio.

- Del resto, un po’ tutto il mio lavoro non sta andando bene. Ho perso l’ispirazione, i miei scatti ormai sono banali. Eri tu la mia Musa.

- Gianni, io… cioè, mi dispiace, ormai lavoro con Guido, ma se ti servisse… Solo che non posso permettermi di pagare due fotografi, ecco.

- Ma no, cucciolo, non ti sto chiedendo di fare di nuovo delle foto con me; a parte il fatto che, se accadesse, non ti farei pagare il servizio: faremmo a metà del cachet della commissione. Ma non è per questo che ho voluto vederti, non c’entrano niente le foto.

- Allora dimmi, Gianni.

- Quel giorno io avevo deciso di chiudere con te: per questo ti ho trattato in quel modo assurdo, mettendo in campo anche Aaron.

- Ma perché, Gianni? Cosa ti ho fatto?

- Niente: semplicemente esisti.

- Ah, ho capito: è sempre la solita storia. Io sono “troppo”, faccio star male eccetera. Quindi mi sono beccato l’ennesima porta in faccia, ecco tutto.

- No, aspetta, non è così semplice. Io pensavo di dover assolutamente chiudere con te, ma non ne avevo la forza, e allora per riuscirci ho scelto il mezzo più rozzo e offensivo: ho cercato di fare in modo che fossi tu a non volerne più sapere di me.

- Bene Gianni, ti comunico che ci sei riuscito. Non ho ancora ben capito perché tu dovessi a tutti i costi chiudere con me, invece di cercare un compromesso o qualcosa del genere, ma ne prendo atto.

- Emmanuel, io non potevo trovare nessun compromesso di nessun genere, perché ormai ti amavo.

- Gianni… Però non capisco, ne avevamo già parlato quella notte, e mi sembrava che…

- Cucciolo, non era così semplice come mi era sembrato. Io ti pensavo giorno e notte, contavo i minuti che mi separavano da quando ti avrei rivisto, capisci? Non vivevo più. Anche il fatto di fare a meno del sesso era solo un pretesto per non rovinare tutto: non potevo correre il rischio di non rivederti più. Ma il punto era proprio quello: io ormai ero disposto a rinunciare a tutto pur di avere la tua presenza: tu mi eri diventato necessario come l’aria che respiravo, e io stesso non ne capivo il motivo e mi spaventavo ogni giorno di più.

- E così hai deciso di far saltare il banco?

- Sì, proprio così.

- Ti capisco, Gianni. Hai scelto un modo crudelissimo per liberarti di me, ma in fondo ti capisco: se ero diventato un peso così insopportabile per te, ci sta che tu abbia deciso di sbarazzarti di me anche con mezzi crudeli e violenti. Ora che lo so non ti porto nessun rancore, hai fatto bene a dirmelo. Forse mi hai chiamato qui perché volevi chiedermi scusa e farti perdonare? Allora sappi che ti perdono con tutto il cuore, perché sei stato sincero.

- No cucciolo, non è tutto qui.

- Non è tutto qui? Che altro c’è?

- Quando ho visto la tua reazione rabbiosa mi sono reso conto che anche tu ci tenevi davvero a me. Le tue grida disperate da leoncino ferito mi hanno bucato il cuore da parte a parte. Io non mi aspettavo una simile reazione da parte tua, sai?

- Ah, quindi pensavi che io fossi un rammollito senza spina dorsale? Grazie della stima.

- No, non pensavo questo: ti credevo un animaletto più tranquillo, ecco tutto; non ti attribuivo la nobiltà di carattere di un leoncino. E invece lo sei. E poi pensavo che in fondo non t’importasse gran che di me. Alla fine, cosa te ne doveva importare di un tizio di mezza età senza nessuna particolare attrattiva? Sì, magari poteva essere una specie di cottarella giovanile, di quelle che passano come le nuvole spinte dal vento. Ma la tua reazione, sia sul momento che dopo, mi ha fatto pensare a qualcosa di più serio.

- Gianni, io credevo di avertelo fatto capire che provavo per te qualcosa di serio. Ora non chiedermi di spiegarti perché: si viene sempre colti in contropiede dall’amore. Capita e basta.

- Ma questo ha cambiato completamente le cose. Io pensavo che lasciandoti avrei sofferto moltissimo per un certo periodo, ma alla fine me ne sarei fatto una ragione; pensavo che a distanza di tempo la cosa mi sarebbe apparsa per quella che era, o meglio credevo che fosse: la tipica crisi di mezza età di un gay che perde la testa per un ragazzino, ma che rinsavisce per forza quando si accorge che per il ragazzino era stata solo una piccola e momentanea cotta, destinata a passare nel giro di poche settimane. È come prendere un cazzotto fortissimo in piena faccia: lì per lì ti stordisce, ma poi torni in te e capisci che il cretino eri tu, che hai voluto sfidare uno molto più forte di te.

- Eh ma non era così, Gianni. Non era così. Io ti volevo bene sul serio e ne ho sofferto moltissimo, non riuscivo a capacitarmi che tu volessi buttarmi fuori della tua vita senza un motivo apparente.

- Lo so, l’ho capito.

- Adesso che conosco il motivo ne soffro lo stesso, ma per lo meno mi sono reso conto che avevi una ragione seria per farlo. Ti ringrazio di avermelo detto.

- Emmanuel, io…

- Cosa c’è? Gianni, ti prego, non posso vederti così triste.

- È che non so come uscirne.

- Da cosa?

- Io ti ho mandato via dalla mia vita, ma ora sto da cani. Volevo fare l’eroe, il maestro, il Socrate della situazione, ma sono soltanto un miserabile idiota. Io non posso stare senza di te, non riesco a vivere, capisci? Ti prego di ritornare nella mia vita in qualche modo, non importa quale.

- È per dirmi questo che mi hai mandato a chiamare?

- Sì. Ti chiedo perdono di questo, non avrei voluto disturbarti. Lo so che mi sto rendendo ridicolo, ma ti supplico: mi metterei in ginocchio se non fossimo in un bar. Io ti amo, Emmanuel, ti amo con tutta l’anima. Ti prego, ti scongiuro: ho bisogno di te. Scegli tu il modo, uno qualsiasi, purché io possa vederti.

(Qualche secondo di silenzio)

- È incredibile quello che mi hai detto, sai?

- Mi dispiace, io…

- Gianni, non scusarti: hai fatto una cosa straordinaria. Nessuno è mai riuscito a dirmi “ti amo”. Nessuno, salvo una sola volta la madre di mio figlio. Ma poi ha cambiato idea: chi ama davvero non cambia idea. È bellissimo quello che hai appena fatto, sai? Bellissimo e coraggioso. Nessuno, mai, mi ha supplicato di rimanere nella sua vita.

- Io pensavo che ti desse fastidio sentirtelo chiedere da me.

- Fastidio? Oh Gianni, mi hai reso straordinariamente felice! Erano settimane che vivevo con un peso opprimente addosso, mi sentivo il cuore stritolato in una morsa: tutto quello che facevo aveva un orribile retrogusto amaro, era come se ci fosse del veleno nell’aria che respiravo. Ora respiro a pieni polmoni, mi sento volare. Grazie, davvero.

- Di niente, cucciolo: è la pura verità.

- Guardami, Gianni: sorridi, non devi essere triste.

- Perché dovrei sorridere?

- Perché sto per dirti una cosa carina.

- Sì? E quale?

- Ti amo anch’io.

- Ma cosa dici, bambino?

- La verità: ti amo.

- Non capisco… Se è uno scherzo, per favore, dimmelo subito.

- Io non scherzo mai su queste cose, Gianni. Ti amo davvero.

(Silenzio)

- Cerchiamo di non piangere, cucciolo, stiamo dando spettacolo.

- Dammi la mano, Gianni. Anzi, dammele tutte e due.

- Ma qui, davanti a tutti? La gente ci guarda.

- Chissenefrega. Fammi accarezzare i tuoi capelli, mi piacciono da morire.

- Non prendermi in giro, ti prego: sono solo un vecchio gay con la tinta fatta da un parrucchiere. Un essere ridicolo.

- Sei bellissimo, Gianni. Io ti vedo bellissimo.

- Se mi vedi bellissimo sei davvero innamorato: solo gli innamorati sono così ciechi.

- Sì, sono cieco e innamorato, forse sono anche scemo, ma non voglio sapere perché sta succedendo tutto questo. Lasciami in pace, Gianni: sono felice, cazzo, sono felice! Tu mi ami, sei tornato a cercarmi e io sto tenendo la tua mano. Sto vivendo uno dei momenti più belli della mia vita, non me ne frega niente del perché e del percome.

- Siamo nei guai, amore mio.

- Perché?

- Io non posso stare con te, lo sai: sto con un altro uomo. Ma non c’è solo questo: anche se così non fosse, io non riesco a toccare il tuo corpo con intenzioni sessuali. Mi sembra un sacrilegio, e non vorrei mai che tu toccassi per scopi sessuali il mio corpo così appassito: mi vergognerei a morte.

- Non è affatto appassito, ma okay, prendo atto dei tuoi tabù e li rispetto. Faremo a meno del sesso.

- E quindi cosa possiamo fare insieme noi due? Non possiamo vivere né insieme né separati. Per questo ti dico che siamo nei guai.

- Ascoltami, amore… Posso chiamarti amore?

- Certo che puoi, anche se mi sembra una cosa dell’altro mondo. Mi tocco per vedere se sono sveglio.

- Dobbiamo ragionare a mente serena, mettere le cose sul tavolo una dopo l’altra e cercare con calma una soluzione. Con un po’ di buona volontà si riesce a trovare una soluzione a tutto.

- Dici?

- Dico. Dobbiamo solo sforzarci di essere assolutamente onesti.

- Sì, questo senz’altro: hai visto che disastro ho combinato cercando di ingannarti.

- Infatti. E quindi mettiamo sul tavolo il primo dato di fatto: noi due ci amiamo.

- Sì.

- Questa è una cosa di cui non siamo responsabili. Puoi considerarlo un dono o una maledizione, a seconda dei punti di vista, ma il risultato non cambia: non possiamo farci niente.

- Infatti: ci è capitato e basta.

- E allora non è una colpa: fin qui siamo a posto tutti e due. I sentimenti che proviamo l’uno per l’altro non possiamo eliminarli e di per sé non sono un male. Può essere un male cercare di tradurli in qualcosa che non dobbiamo fare: tu, per esempio, saresti molto a disagio se tradissi il tuo Massimiliano.

- È peggio di così: come ti ho già detto, non potrei tradirlo con te, perché tu per me non sei un’avventura. Lo lascerei definitivamente, e poi vivrei nel rimorso per tutto il resto della mia vita.

- Ma poi mi par di capire che non potresti tradirlo con me nemmeno volendo, dato che hai quella specie di tabù sessuale nei miei confronti.

- Guarda, cucciolo, questa è una cosa di cui non mi capacito: non mi era mai successo con nessuno, sai? Più ti desidero, più provo ritegno nei tuoi confronti.

- Ce ne faremo una ragione, Gianni: anzi, da un certo punto di vista ci aiuta.

- Ma quindi, tesoro, cosa ci resta da fare insieme?

- Tutto il resto, Gianni. Un sacco di cose, ma proprio un sacco. È l’anima che ama, non il corpo, no? Le nostre anime impareranno ad amarsi passeggiando, telefonandosi, dicendosi delle cose carine, tenendosi per mano come adesso, raccontandosi le loro giornate, eccetera eccetera. Anzi, sai cosa mi è venuto in mente?

- Cosa, amore mio?

- Arrivando qui, in periferia, ho visto un enorme cinema multisala a più piani: potremmo passare qualche giornata insieme lì dentro a guardarci dei bei film, mangiare insieme al bar, starcene seduti nelle poltroncine delle sale d’aspetto a guardare il panorama sotto di noi dall’alto delle vetrate dell’ultimo piano: sarà come starcene appollaiati in Paradiso a sgranocchiare cioccolatini colorati, fuori del mondo.

- È un’idea meravigliosa, cucciolo.

- Poi magari un giorno torniamo qui e ci infiliamo in quella botola che dicevi, eh? E se avrai voglia di farmi qualche foto, naturalmente, faremo anche quella. Che te ne pare della mia proposta?

- Non so cosa dire, perché prima devo svegliarmi: sto vivendo uno strano sogno in cui un angelo seduto di fronte a me al tavolo di un bar mi tiene per mano e mi propone di entrare in Paradiso con lui, invece di mandarmi via a calci nel sedere per il male che gli ho fatto. Quindi sì, certamente sto sognando e fra poco mi sveglio.

- Gianni, in Paradiso ci siamo già: questo è il Bar Paradiso, non ricordi? Basta piangere, su.

- Stiamo diventando melensi come due personaggi da fotoromanzo, marmottino.

- Oh, finalmente mi hai chiamato di nuovo marmottino: non hai idea di quanto mi sia mancato. Sì, siamo sdolcinati e melensi. Immersi nella melassa come il ghiro di Alice, dolciastri e appiccicosi.

- Facciamo veramente schifo, ci stanno guardando tutti. E non mi sono mai sentito meglio in vita mia.

- Dammi un bacio. Un bacio si può, è consentito dal regolamento.

- Quale regolamento?

- Quello del Paradiso.

 

 

 

 

 

 

lunedì 4 agosto 2025

2.7. Il processo (Emmanuel decide che ne ha abbastanza)

- Emmanuel, è inutile che cerchi di negare l'evidenza: dovevi stare più attento.

- Michele, non ho bisogno che me lo dica tu: è da ieri che me lo ripeto. Dovevo stare più attento, anche se non ho ancora capito a cosa, dannazione. In realtà credo di essere semplicemente molto sfigato: sono stato attentissimo, non ho perso di vista Martino neppure per un secondo. Quando si è fatto male stava camminando accanto a me e lo tenevo per mano.

- Tesoro, - interviene con dolcezza mia madre - il fatto è che non avresti fargli dovuto togliere le scarpine.

- Sì mamma, hai ragione, non dovevo farlo camminare a piedi nudi.

- Eh già - conferma mio fratello con ironia, con il tono di chi dice "povero fesso, non arriva a capire le cose ovvie".

- Ma poi, Emmanuel - aggiunge mio padre - non puoi prenderti certe libertà con il figlio di un altro: come ti è saltato in testa di portarlo a fare una passeggiata come se fosse figlio tuo? Io davvero non ti capisco.

Sono al colmo dell'esasperazione.

- Papà, mi par di capire che neppure Michele sia il padre del bambino, ma sul fatto che lui se lo porti dove gli pare non avete mai trovato da ridire.

- Cos'è, sei invidioso di Michele perché Antonia gli ha chiesto di fare da padrino?

- Papà…

- Calma, fratello - mi interrompe Michele, cambiando opportunamente argomento - Io non ho mai portato Martino in giro senza che ci fosse Antonia. Al limite lo porto qui, alla villa, dove ci sono la mamma e Teresa che non lo perdono mai di vista. Ma non mi sono mai sognato di portarmelo in giro da solo in posti pericolosi.

- Pericolosi! - sbotto - Pericoloso il torrente Orco in una giornata d'estate? Ma se ci ho passato metà della mia adolescenza!

- A quanto pare è pericoloso, visto che il piccolo s'è fatto male.

Taccio, masticando rabbia e amarezza. Non mi sento giustificato neppure in veste di padre, quale in effetti sono, ma quello che sto subendo è un processo kafkiano dove io sono un Signor Nessuno che si è preso, chissà perché, la libertà di portarsi in giro il figlio di qualcun altro, e questo mi fa ribollire il sangue nelle vene. Sto per sbottare "Ma andate affanculo, teste di cazzo, non lo avete ancora capito che è figlio mio?".

Mi trattengo appena in tempo, e solo perché dovrei spiegare ai miei un po' di cosette circa i miei rapporti con l'ex moglie di mio fratello. A volte penso che sarebbe meglio farlo, a costo di suscitare sdegno e scandalo: sarebbe l'unico modo per chiarire la situazione. Ma in questo momento, mi dispiace ammetterlo, non me ne importa abbastanza: non vedo perché dovrei fare tutta questa fatica per chiarirmi con gente che, in fondo, non ha nessuna voglia di capirmi. Meglio fregarsene, che pensino un po' quel che gli pare.

Teresa, che sta servendo il caffè, si permette di intervenire con un sorriso, vedendomi in difficoltà.

- Manuelito pensa che erano tutti come lui - dice bonariamente, per sdrammatizzare.

- Ha proprio ragione, Teresa, - conferma mia madre - lui da bambino saltava come una capra da un sasso all'altro sui torrenti e non si faceva mai male. Ma il bambino di Antonia è più fragile di te, tesoro: si vede...

- Vero, - confermo - ho ragionato con la testa di uno che da piccolo non si è mai fatto male, ma evidentemente non sono tutti come me.

- Antonia come l'ha presa? - s'informa mio padre. Non faccio in tempo a rispondere: Michele mi previene.

- Come vuoi che l'abbia presa, papà? Malissimo. S'è arrabbiata molto, tanto più che lei è contraria ai vaccini in tenera età; ma in questo caso Emmanuel ha fatto la cosa giusta, facendogli fare l'antitetanica.

- Certo, non c'era alternativa. Ora il bambino come sta?

- Così così. Non riesce ad appoggiare il piedino a terra e ha la gamba un po' gonfia. Però è di carattere forte e sta reagendo bene, almeno psicologicamente: sono riuscito a farlo giocare un po' con il suo Sapientino, era di buon umore.

- Immagino - dice timidamente mia madre - che non vorrà più vedere Emmanuel, dopo quello che è successo.

- In realtà no. - risponde mio fratello - Ha detto più volte "Tio cattivo", ma poi, mentre stavamo giocando, s'è voltato a guardare e ha chiesto dov'era "Tio Manu", che nel frattempo se n'era andato sbattendo la porta.

- E mi sa che non lo rivedrà più per un po', "Tio Manu" - rispondo con tono sarcastico - Col cazzo che rimetto piede in quella casa, dopo il modo in cui mi ha trattato Antonia.

- Emmanuel, cerca di capire: è stata una reazione emotiva assolutamente inevitabile date le circostanze, ma poi ti ha chiesto scusa.

- Non so che farmene delle sue scuse, specie suggerite da te. Pensi che non me ne sia accorto?

Non volevo assumere questo atteggiamento strafottente, ma ho i nervi a fior di pelle e non ne posso più di questo processo. Non vedo l'ora di andarmene.

- Tesoro, vedrai che quando il bambino guarisce torna tutto a posto: incidente dimenticato.

Guardo freddamente mia madre.

- Vedi mamma, sono io che non dimentico. E adesso, se permettete, me ne vado: nel pomeriggio ho un paio di appuntamenti con delle clienti al vivaio.

- Non resti a pranzo con noi?

- No, grazie.

- È ancora presto, sono solo le dieci.

- Ho fretta, mamma: devo andare da una parrucchiera a farmi mettere le extension.

- Le… extension?... Stai scherzando, vero?

- Ovviamente, mamma.

- E allora, se è uno scherzo, perché non resti a mangiare da noi?

- Mamma, ho delle cose da fare: devo lavorare, se voglio restituire il prestito.

Faccio un teatrale inchino di saluto all'assemblea e giro sui tacchi.

 

...

 

- Ti stanno bene i kabelu un po' più lungheti, Prins.

- Grazie, May.

- Te lo ha chiesto Guido?

- No, Carlos, è stata una mia iniziativa.

- Sicuro?

- Sicurissimo.

- Comunque, Principe, dovevi stare più attento: uno si può fare male seriamente, in un torrente.

- Oh cazzo! - sbotto esasperato - Anche tu, Carlos?

- Irmùn... - inizia Mayra, vedendo la tempesta addensarsi sul mio volto.

- No May, - la rimbecca Carlos - quel che è giusto è giusto: non puoi dargli sempre ragione anche quando ha torto.

- Okay Carlos, ho capito: ciao, ragazzi.

Scosto rumorosamente la sedia di legno e mi alzo.

- Ma no, Prinsy! Aspetta, prendi una fetta di dolce...

- Grazie May, no.

Bella, infastidita da tutta quell'agitazione, inizia ad abbaiare.

- Zitta, bella! - esclamo. Bella guaisce e tace di colpo.

Mayra perde improvvisamente la pazienza.

- Adeso basta tuti e due, va bene? Scolta me, irmùn: il Prinsy ha fatto del suo melio e no è colpa sua se ha fatto un erore. Capita a tutti di fare deli errori. Te non ne fai mai?

Poi si rivolge a me con dolcezza:

- E te, Manu, quando fai delle robe del genere, magari chiedi a me che ti compagno volontieri: quattro oki vedono melio di due. Ti dò una mano io a guardare il mininu.

Le sorrido, ma ribatto:

- Grazie, May: in pratica mi stai dicendo che da solo non sono in grado di badare a mio figlio.

- Ma no, figurati, Manu... no mi permeterei mai!

- Eh, ma è proprio quello che hai detto.

- Anche perché è quello che è successo, Principe - conclude Carlos senza animosità, con il tono di una semplice constatazione.

Mi butto la giacca di jeans in spalla.

- Va bene ragazzi, ho capito. Grazie di tutto.

- Ma Prinsy...

- Sono stanco, May, è stata una giornata pesantissima. Vado a casa a dormire.

- No vuoi stare qui?

- No grazie, stasera no. Vieni, Bella.

Faccio qualche passo verso l'uscita, poi sulla soglia mi volto.

- Oh, a proposito: domani non ci vediamo, ho un appuntamento molto importante a Milano.

- Con Guido? - mi chiede Carlos.

Sorrido.

- Sono affari miei - rispondo, ed esco.

Chiudo la porta dietro di me e li sento discutere animatamente: Mayra sta rimproverando suo fratello. Fingo di non sentire e salgo sul mio fuoristrada.

Mentre sto guidando verso la mia casetta di Baldissero provo un acuto senso di solitudine e un immenso sollievo per essermi levato dai piedi tutti quanti, con l'eccezione di Mayra, che però stasera era irritante con la sua caritatevole offerta di aiuto. Lacrime di rabbia e delusione mi salgono agli occhi al pensiero che io avevo davvero fatto del mio meglio con Martino: evidentemente il mio meglio è molto al di sotto della sufficienza. Un pensiero mi attraversa la mente: sarebbe stato meglio, molto meglio, se io non lo avessi messo al mondo. Questo pensiero è così orribile che mi paralizza qualcosa dentro. Devo essere impazzito. Martino è un bambino speciale, non so come io possa coltivare rimpianti del genere: anche se non dovessi mai essere all'altezza del ruolo di padre, sarebbe stato comunque importante dargli la possibilità di vivere, vivere come gli pare, con chiunque altro. E se io non gli piaccio, pazienza. Neppure a me piacerebbe avere un padre gay e pasticcione che mi mette in pericolo invece di proteggermi.

Inghiotto le lacrime e proseguo imperturbato. Scaccio tutti i ricordi di quegli ultimi due giorni e faccio spazio per un solo pensiero: domani rivedrò Gianni.

Da qualche tempo faccio spesso uno strano sogno: stiamo camminando fianco a fianco lungo un sentiero di campagna dorato. Tutto, intorno, ha il colore dell'oro: anche l'aria è dorata. All'improvviso lui mi avvinghia alla vita e mi bacia con tanta violenza da soffocarmi quasi; sono costretto ad opporre resistenza e ad allontanarlo un po' da me. Gli dico dolcemente: "Così mi togli il respiro, Gianni".

Non voglio coltivare né speranze né paure: andrà come andrà, ma in questo momento l'unica fonte di dolcezza in quel deserto è lui.

Lui che ha voluto a tutti i costi rivedermi.

Lui che si è messo sotto i piedi dignità e orgoglio pur di mantenere i contatti con me, nonostante io gli chiudessi ogni volta il telefono in faccia.

Lui che ha fatto il diavolo a quattro pur di rivedere questo essere fallimentare che non combina mai niente di buono, questo perdente su cui tutti trovano da ridire.

Lui che trova questo perdente meraviglioso.

Pigmalione ama la sua statua, la vede bellissima, non si accorge dei suoi difetti, e lei ricambia inevitabilmente il suo amore.

Il mio Pigmalione.

Lui, il solo, l'unico.

Gianni.

Del giudizio degli altri, adesso, non m'importa niente.

 

 

 

 

 

mercoledì 30 luglio 2025

2.6. Pipi, papà! - Parte II (La situazione esplode)

Codice giallo. L’attesa è lunga, estenuante: arriverò molto tardi, Antonia sarà fuori di sé. Mentre siedo sulla poltroncina di plastica della sala d’attesa con il bambino in braccio, le dò un colpo di telefono e m’invento una scusa qualsiasi per giustificare il ritardo, sforzandomi di apparire del tutto naturale. Le dico che siamo andati a trovare Mayra alla serra e che lei ci ha intrattenuti con uno dei suoi dolci. Ci casca. Riattacco.

Finalmente arriva il nostro turno: entriamo nel pronto soccorso e veniamo raggiunti da un’infermiera corpulenta, quasi della stazza di Mayra, ma senza nulla della sua materna dolcezza. Porta gli occhiali da vista, ha i capelli raccolti in una stretta crocchia sulla sommità del capo e indossa la classica divisa bianca con casacca a maniche corte e pantaloni, con vistosi aloni di sudore sotto le ascelle nonostante l’aria condizionata. Mette a sedere Martino su un lettino, toglie il fazzoletto e gli osserva il piede.

- Come si è fatto male il piccolo? - chiede con tono inquisitorio. Tengo saldamente nella mia la mano di Martino, che sta tremando un po’, e le rispondo:

- Stava facendo qualche passo in un torrente e si è tagliato con qualcosa che era sul fondo.

L’infermiera mi squadra da capo a piedi:

- È lei il padre?

Imbarazzato, non sapendo come fare per non far sentire la risposta al bambino, faccio segno di sì con la testa dietro la sue spalle. Inaspettatamente, Martino risponde per me:

- Tio Manu.

- Ah, quindi è lo zio, non il padre. E perché ha detto di essere il padre?

Mi stringo nelle spalle, rassegnato.

- Come le è venuto in mente di lasciare solo un bambino così piccolo in un torrente?

- In quel punto l’acqua è bassa e quasi ferma, c’è una specie di laghetto… - inizio giustificandomi, ma subito un moto di ribellione mi assale: cosa diavolo vuole da me questa tizia? Come si permette di farmi questo terzo grado?

- Ad ogni modo non era solo - proseguo con tono asciutto - Camminavo con lui e lo tenevo per mano, e poi c’era anche il mio cane.

- Il suo cane?

- Senta, - le dico bruscamente - il bambino non era solo, okay? Non mi sembra il caso di perdere tempo a farmi il processo: si tratta di curare la ferita, disinfettarla ed eventualmente fargli un’antitetanica, perché non sono riuscito a capire con cosa si sia tagliato. È disposta a farlo oppure no?

- L’antitetanica senza dubbio. Lei ha messo il bambino in pericolo - insiste lei, fissandomi gelida. Sostengo il suo sguardo: non rispondo nulla, ma accenno a muovermi verso l’area del triage, intenzionato a chiedere l’intervento di un altro infermiere meno indisponente. Finalmente si allontana per andare a prendere garze, cerotti e disinfettanti e il necessario per l’iniezione.

- Ora - sussurro a Martino, prendendolo in braccio - questa signora ti fa passare la bua. Sentirai una piccolissima punturina, ma non fa per niente male.

Lacrime senza suono scorrono dagli occhi di Martino: gliele asciugo con il mio fazzoletto e gli copro le guance di baci.

- Sinniora bbutta - singhiozza. La penso esattamente come lui, ma non devo farglielo capire.

- Ma no, amore, non è brutta: è una brava signora che adesso ti cura il piedino.

Nasconde il viso sulla mia spalla. Lo tengo così mentre l’infermiera gli fa l’iniezione, che gli provoca un piccolo sussulto.

- Fatto, è già tutto finito - gli dico, stringendomelo al petto e accarezzandogli i capelli.

L’infermiera osserva la ferita.

- Temevo di dovergli dare due punti, ma fortunatamente, con una buona medicazione e una fasciatura stretta, potremo evitarlo.

Sospiro di sollievo: ci mancavano anche i due punti con relativa anestesia.

Martino sopporta stoicamente la medicazione, senza lamentarsi: lo ammiro moltissimo, per essere così piccolo dimostra una grande forza d’animo. Intanto non smetto neppure per un istante di tenergli la mano e di accarezzargli la testa.

Alla fine ringrazio l’infermiera, che, per quanto antipatica, ha fatto un ottimo lavoro; non mi risponde neanche: fa un cenno con la testa, gira sui tacchi e rientra dietro la porta a vetri. Prendo in braccio il bambino ed esco dal pronto soccorso, impaziente di raggiungere il parcheggio dell’ospedale dove ho lasciato il Suzuki con sopra Bella, ovviamente con i finestrini aperti e una ciotola d’acqua a disposizione.

- Tutto bene? - chiedo a Martino, dopo averlo sistemato nel suo seggiolino. Fa cenno di sì con la testa, ma gli angoli della sua bocca rivolti all’ingiù dicono il contrario. Gli accarezzo di nuovo la guancia, salgo al posto di guida e riparto.

Ed eccomi sulla via del ritorno. La mia cazzata quotidiana l’ho fatta: chissà cosa mi dirà fra poco Antonia, quante maledizioni mi tirerà dietro, chissà se mi lascerà ancora portare in giro Martino. Del resto, quello che potevo fare l’ho fatto: la ferita è stata curata e l’antitetanica scongiurerà il peggio. Gli faccio una carezza sul piedino fasciato, ma lui allontana la mia mano.

- Tio cattivo! - esclama.

- Hai ragione, Martino, - ammetto avvilito - sono uno zio sbadato, ma ti voglio bene. Vedrai che il piedino guarisce in fretta.

Martino, offeso, non risponde. Riaccendo lo stereo e rimetto su le cover lullaby che gli piacciono tanto, ma il bambino frigna insofferente. Spengo lo stereo e guido per qualche minuto in silenzio. Improvvisamente il cellulare squilla: l’ho collegato in vivavoce allo stereo. Allungo d’istinto il braccio per spegnerlo, ma poi penso che in fondo Martino è troppo piccolo per capire. Non mi va di essere offensivo con Gianni, non voglio attaccargli il telefono in faccia. Ritiro il braccio e rimetto la mano sul volante, fingendo indifferenza per non insospettire Martino, che mi sta osservando con la coda dell’occhio. La voce di Gianni si diffonde chiara nell’abitacolo.

- Emmanuel, amore, ci sei?... Stai guidando, vero? Sento il rumore del motore: metti in vivavoce, mi raccomando, non voglio che tu corra dei rischi per colpa mia. Lo so che non mi rispondi, ma ti prego di ascoltarmi. Non riattaccare, per favore.

Un sudore freddo mi imperla la fronte, mentre Martino si fa stranamente attento.

- Ti penso tutti i giorni, sai? Non ti dimentico neppure per un istante. Vorrei tanto incontrarti per spiegarti… spiegarti alcune cose importanti, ecco.

Martino si lascia sfuggire un gridolino.

- Oh, ma sento che non sei solo: c’è il tuo piccolino con te? Che vocina adorabile…

Mi mordo a sangue la lingua per evitare di rispondergli. Intanto Martino continua a cinguettare e Gianni si scioglie in brodo di giuggiole:

- Dio, che creaturina adorabile... Sei fortunato, amore, ad avere un marmottino tutto tuo. Io non potrò mai averne uno… io… io avevo soltanto te, di marmottino, e adesso ti ho perso…

Gianni singhiozza sommessamente. Il mio imbarazzo è alle stelle. All’improvviso Martino scoppia in una risata isterica, come quella con cui mi aveva accolto quando mi aveva visto per la prima volta . Sento Gianni che balbetta:

- Il tuo piccolino ride di me… Emmanuel, amore, temo proprio che dovrò dirti addio. Sto diventando un peso insopportabile per te: sto sommergendo nel ridicolo la tua vita…

Gianni piange in silenzio, mentre Martino ride sempre più divertito.

- Addio, amore mio: perdonami per tutto - conclude Gianni con un singhiozzo, e riattacca.

Martino sta ancora ridendo.

Il mio cuore esplode in mille pezzi. Rifaccio immediatamente il numero di Gianni: non risponde. Guido in stato confusionale per diversi minuti, con il sangue che mi martella alle tempie, continuando a rifare quel numero. C’è la segreteria telefonica: gli lascio un messaggio secco e perentorio:

- Gianni, richiamami, cazzo.

Mi attraversa la mente un pensiero estemporaneo: in questa coppia il maschio sono io.

Dopo qualche minuto che mi sembra un’eternità, finalmente sento squillare il cellulare. Tolgo il vivavoce e lo porto all’orecchio, incurante di qualsiasi regolamento stradale.

- Gianni.

- Emmanuel.

- Gianni.

Contatto ristabilito. Respiro profondamente e ricomincio:

- Scusami, non volevo offenderti. Il bambino…

- Oh, il tuo adorabile bambino… cosa vuoi che ne sappia, poverino: mi ha semplicemente giudicato ridicolo, come in effetti sono.

- Tu non sei ridicolo. Mi hai fatto del male, ma non sei ridicolo, cazzo! Hai capito?

- Amore mio, era proprio per spiegarti delle cose che volevo rivederti.

Sospiro profondamente.

- Quando?

- Quando puoi tu.

- Dopodomani alle quattro.

- Va bene.

- Dove?

- Vengo io a Torino, non voglio farti correre fin qua.

- No, a Torino no: preferisco venire io a Milano. Dove?

- Al bar Paradiso. Lo conosci?

- No, ma lo troverò.

- Ti sono grato dal profondo dell’anima, Emmanuel.

- A dopodomani.

Riattacco.

Sono madido di sudore, ho il cuore che sta battendo a casaccio senza più preoccuparsi di alternare sistole e diastole. Mi lascio cadere con la schiena contro il sedile. Accendo lo stereo e alzo di prepotenza il volume, senza concedere diritto di replica a Martino, che infatti tace. Gli allungo una carezza sui capelli.

- Ti fa male il piedino? - gli chiedo.

Scuote la testa con aria decisa, da vero uomo.

- Alla mamma cosa diciamo? Che hai inciampato in un sasso aguzzo?

Scuote di nuovo la testa.

- E cosa le diciamo allora?

La sua risposta mi lascia senza parole:

- Emanue amole.

Scoppia di nuovo a ridere.

- Emanue amole, Emanue amole, Emanue amole… - ripete ridendo, con tono canzonatorio.

Sarà anche mio figlio, ma è una creatura crudele, e questa è una caratteristica che non può avere ereditato da me. Inghiotto la rabbia e la frustrazione, cercando di ricordarmi che sono io in difetto: non sono stato abbastanza attento e ho lasciato che si facesse male, perciò mi merito questo ed altro. Del resto, sono contento che il bambino sia tornato di ottimo umore e stia ridendo, anche se ride di me.

E ora, “Emmanuel amore”, preparati a ricevere una lavata di capo da Antonia.

Sospiro senza dire più niente e mi concentro sulla guida, confortato dalla presenza di Bella nel bagagliaio e dalla prospettiva di cenare con Carlos e Mayra. Ma un’altra gioia, più intensa, mi sta sciogliendo il cuore come un ghiacciolo in un frigo spalancato: presto, molto presto, rivedrò Gianni.

 

 

venerdì 25 luglio 2025

2.5. Pipì, papà! - Parte I (Doveva essere una bella gita...)

(agosto 1998)

 

- Mi raccomando, Emmanuel, fa’ attenzione: il bambino è ancora molto piccolo. Ti prego di non metterlo in pericolo.

Un senso di insofferenza mi assale a queste parole: non ne posso più di essere considerato da Antonia come una specie di minorato mentale buono solo per farci sesso ogni tanto. Io vorrei essere stimato, non trattato quella condiscendenza che si adotta con gli individui limitati per non farli sentire troppo inferiori. Vorrei sentirmi come mi faceva sentire Gianni, unico e prezioso; mi rendo conto di quanto sia insostituibile l’ammirazione iperbolica che solo un gay riesce ad avere per un altro uomo: nessuna donna può farti sentire così. Diventa davvero una droga, della quale è difficilissimo fare a meno; e io, neanche a dirlo, ci sono cascato con tutte le scarpe.

Ma quella, purtroppo o per fortuna, è acqua passata. Il mio presente è qui, con questa donna e questo bambino, e se non fosse per l’amarezza che avvolge come un fumo tossico tutte le mie giornate, potrei quasi dire di essere felice; ma è inutile mentire a se stessi: non lo sono. Del resto la felicità è una chimera, bisogna essere contenti di quello che si ha, agli dèi bisogna chiedere non quello che si desidera, ma di liberarci del desiderio, eccetera eccetera. Vorrei almeno sentirmi sereno, ecco tutto: ma il tono di indulgente superiorità che Antonia ha sempre con me me lo impedisce, mi irrita.

- Antonia, - le dico - possibile che tu mi prenda sistematicamente per un imbecille? Lo so anch’io che è piccolo, e non è la prima volta che lo porto con me, mi pare, no?

- Sì, ma prima era diverso: non camminava ancora, lo mettevi nel marsupio e te lo portavi a spasso così per i boschi o in quei posti strani che piacciono a te.

- E certo, io sono il solito sfigato che lo porta in giro per i boschi o “in quei posti strani che piacciono a me”, e che, guarda caso, una volta piacevano anche a te: mica a San Sicario nella baita nuova o in piscina alla villa. Chissà perché, eh?

- Emmanuel, dai, non cominciare…

- Comunque sì, l’ho portato anche nei boschi e lungo il torrente: e allora? Qualche volta l’ho portato anche in montagna e una volta perfino al mare, e non gli è mai successo niente.

- Certo, perché mentre tu passeggiavi lui era appeso sulla tua schiena o sul tuo petto. Ma adesso che ha incominciato a camminare è tutto diverso: è in piena esplorazione, non sta mai fermo. Anche in casa non fa che cadere per terra dietro tutti gli angoli, dovrei avere mille occhi per non perderlo di vista. Perciò ti prego, sta’ attento.

- Ci starò attentissimo. Poi c’è anche Bella che mi dà una mano: Martino cammina volentieri aggrappato al suo pelo e lei è pazientissima con lui.

- Sì, è un bravo cane.

Bella conferma con un abbaio e un largo sorriso, lasciando penzolare di fuori la lingua. Ho spesso l’impressione che la mia cagna capisca l’italiano, o quanto meno comprenda il senso generale di quello che viene detto. Anche Martino adesso mi dà questa impressione: capisce molte parole e frasi semplici. È un bambino molto curioso, decisamente intelligente, comprende i rapporti di causa-effetto, sta incominciando a costruire frasi di due parole, che rappresentano, a quanto ho letto, una tappa piuttosto avanzata dello sviluppo logico-linguistico del bambino: più volte l’ho sentito dire “Mamma pappa”, oppure “Gatto palla”, quando vuole la pallina da lanciare a Gino, che ci gioca come un esperto calciatore dribblando gli ostacoli e lo fa ridere di gusto.

Naturalmente non conservo il minimo ricordo di come fossi io alla sua età, ma penso di essere stato un bambino piuttosto tonto, di quelli che stanno volentieri in braccio alla mamma e si guardano intorno con aria ebete e sognante. Mi piaceva giocare in giardino, questo sì, lo ricordo perfettamente: ho imparato a correre molto presto, e spesso mi sbucciavo le ginocchia cadendo; però, a quanto mi dice mia madre, non piangevo mai.

Antonia mi cede finalmente il bambino: lo prendo in braccio. Scalpita e strilla un po’, perché vorrebbe camminare da solo, ma non mollo la presa: lo sistemo sul sedile anteriore del Suzuki, nel suo apposito seggiolino per bambini piccoli, faccio salire Bella nel portabagagli, torno indietro a dare un bacio ad Antonia e metto in moto.

È una bella e calda giornata d’agosto: accendo lo stereo e inserisco nel lettore un disco che piace molto a Martino: si tratta della rivisitazione in chiave “lullaby” di alcuni famosi brani rock che mi piacevano molto e mi piacciono tuttora. Non avrei mai pensato, ad esempio, che i Nirvana si prestassero magnificamente alla realizzazione di cover da culla, ma in fondo non è affatto strano: c’è quasi sempre, nei giri melodici delle canzoni di Kurt, un che di infantilmente orecchiabile, una sorta di rievocazione autoconsolatoria di atmosfere dell’infanzia. Martino canticchia i Nirvana a modo suo, confermando con ciò di essere proprio mio figlio, e sembra piuttosto a suo agio nel suo comodo seggiolino.

Sono già le due e mezzo, e quindi non potremo andare lontano. Porterò Martino al torrente Orco, dove andavo spesso da ragazzo con sua madre a studiare: mi fa piacere rivedere quei luoghi. Ora che ho ristabilito un rapporto con Antonia e la nostra situazione ha raggiunto, bene o male, un punto di equilibrio, non mi fa più male ritornarci: anzi, sono contento di portarci mio figlio e il mio cane, anche se mi rendo conto con un’improvvisa fitta di amarezza che Tegame resta per me insostituibile. Voglio molto bene a Bella, ma è un rapporto diverso, per così dire esterno. Invece quel povero animale grigiastro e scolorito era una parte di me, una specie di alter ego canino. Questo pensiero offusca un po’ la serenità del mio stato d’animo, velandolo di un’ombra di malinconia. Del resto, da qualche tempo a questa parte, sono sempre triste, anche quando fingo di essere allegro.

Soffro ancora e sempre per la mancanza di Gianni. Soffro doppiamente perché non dovrei soffrire. Sono qui con mio figlio e vorrei essere fra le braccia di un uomo che potrebbe essere mio padre: che razza di uomo sono? Che razza di padre posso mai essere?

Sono settimane, sono mesi ormai che combatto contro me stesso per dimenticarlo. Mi ha dato una grossa mano lui stesso, trattandomi in quel modo indecente. Quindi sì, soffro, ma sopporto stoicamente la sofferenza. Purtroppo so bene che è la sua telefonata quotidiana ad aiutarmi a sopportarla: ogni volta che squilla il cellulare e vedo quel numero, il mio cuore fa una capriola. Ora ho cambiato atteggiamento: non riattacco più immediatamente, ma ascolto in silenzio quello che ha da dirmi, senza rispondere. Poi riattacco. In questo modo lui ha la certezza che l’ho ascoltato: non voglio farlo sentire umiliato o respinto. Gli voglio bene, dannazione, e non mi va che soffra più di tanto. Ma no, non tornerò a cercarlo: lascio che la nostra ferita sanguini placidamente, annegandoci entrambi in un lago di torpore malinconico. Affoghiamo tenendoci per mano: è un modo come un altro per restare insieme.

Ed eccolo, il mio torrente, dove si allarga liscio e tranquillo in un’insenatura accanto alla riva erbosa che così spesso sceglievo per andarci a studiare, da solo o con Antonia, ma sempre in compagnia di Tegame. Fortunatamente Bella ha gli stessi gusti di Tegame e scodinzola felice, mentre faccio scendere Martino sull’erba e lo porto per mano verso l’acqua. Trotterella al mio fianco a piccoli passi ancora un po’ incerti, reggendosi con l’altra mano alla coda di Bella. Ci sediamo sulla sponda e lo prendo in braccio; osservo il placido scorrere dell’acqua, azzurra e trasparente, con il mento appoggiato sui suoi riccioli rossi, e mi sento pervaso da una strana commozione. Ad un tratto il bambino si agita nervosamente, mettendosi una manina sui pantaloni all’altezza dei genitali: Antonia gli ha messo il pannolino mutandina prima di affidarmelo, ed inoltre ne ho altri due di ricambio nella sacca con la stampa di Pluto che porto con me, dedicata interamente alle cose di Martino; tuttavia ho l’impressione che lui stia cercando di comunicarmi che vorrebbe fare la pipì, e non nel pannolone. Infatti mugola:

- Pipì, papà.

Resto sbalordito: non tanto per il messaggio che mi sta comunicando, dal quale risulta una precoce capacità di riconoscere lo stimolo della vescica e un’altrettanto precoce volontà di controllarlo, ma per le ultime due sillabe. Ad ogni modo lo assecondo, lo faccio alzare e lo porto in una zona riparata dai cespugli (precauzione inutile, ma io e mio figlio siamo tipi molto riservati), gli abbasso i pantaloncini e il pannolino e lo aiuto, sostenendolo, a fare la pipì “da uomo”, come desidera. Alla fine appare molto soddisfatto e sorride mentre gli tiro di nuovo su i pantaloncini e lo riporto a sedere sulla sponda.

- Martino, - gli dico - sei stato bravissimo a chiedere di fare la pipì come i grandi, sai?

Annuisce con convinzione.

- Però hai detto anche un’altra cosa… non hai detto solo “pipì”, vero?

Alza le spalle, come se fosse una cosa di nessuna importanza.

- Cos’hai detto, Martino? - insisto.

- Pipì - risponde lui.

- Sì, ma dopo cos’hai detto?

- Pipì! - ripete.

- Ho capito che hai detto “pipì”, ma dopo hai detto anche un’altra cosa. Non ho sentito bene, puoi dirmela di nuovo?

- Pipìììì! - sbotta lui esasperato, con l’aria di voler chiudere definitivamente quel discorso.

Sospiro rassegnato. Sono sicuro di avere sentito bene, ma da lui non saprò nulla, si è chiuso come un’ostrica. Mi porterò appresso questo dubbio per chissà quanto tempo.

- Vieni, - gli dico - andiamo a fare due passi dentro l’acqua: qui è bassa e tranquilla.

Bella, come al solito, capisce al volo il senso delle mie parole ed è ben felice di assecondarle: si tuffa nel torrente e sguazza con salti pesanti fra le pietre bianche e lisce del fondale, sollevando spruzzi e tentando di azzannare qualche pesce di passaggio, ovviamente senza successo. Accompagno Martino sulla riva di una piccola piscina naturale dall’acqua verdeazzurra, profonda poco più di venti centimetri: mi sembra il posto più adatto per fargli fare una passeggiata nell’acqua.

- Pecci! - esclama il bambino, indicando alcuni avannotti di barbo o di cavedano.

- Sì, ci sono i pesciolini - confermo sorridendo.

Mi tolgo le scarpe da ginnastica e gli sfilo le scarpine, appoggiandole sulla riva asciutta. Poi lo prendo per mano e avanzo verso l’acqua, cercando di indurlo a camminare nella piccola piscina azzurra, ma il bambino recalcitra e oppone resistenza.

- Dai, Martino, vieni con zio Manu.

- Pappa!

- Sì, dopo ti dò il tuo omogeneizzato di frutta, ma prima ci rinfreschiamo i piedi. Guarda Bella come salta nell’acqua!

Poco convinto, esitante, il bambino si lascia persuadere e inizia a muovere qualche passo accanto a me. Cerco di fargli appoggiare i piedini sui sassi più larghi e lisci. Martino incomincia a prendere gusto alla passeggiata; camminiamo per mano con i piedi nell’acqua per qualche minuto, quando all’improvviso lui lancia un piccolo grido.

- Che succede? - gli chiedo allarmato.

- Ahia pede!

Lo prendo in braccio e il cuore mi si ferma in petto: il suo piedino sinistro sanguina abbondantemente, ferito da non so cosa. Cerco di rassicurarlo, ma in realtà sono in uno stato confusionale e ho il cuore a mille. Scruto nell’acqua per capire cosa possa avere ferito il piede di Martino, ma non vedo niente: probabilmente un maledetto vetro, che si confonde con la trasparenza verdeazzurra dell’acqua. Il bambino, ovviamente, si mette a piangere; Bella interrompe immediatamente i suoi giochi acquatici e ci raggiunge abbaiando.

- Zitta, Bella! - intimo severo - Non capisci che così lo spaventi ancora di più?

Bella ammutolisce immediatamente e scodinzola avvilita.

- Non è niente, Martino, adesso lo zio ti fascia il piedino e poi andiamo a farci curare.

Prendo il bambino in braccio e lo porto sulla sponda: poi estraggo dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto pulito di cotone che per fortuna ho portato con me e gli fascio il piedino cercando di chiudere la ferita e di non farla sanguinare troppo, anche se so bene che per evitare il tetano è meglio lasciare che il sangue scorra: ma ne è scorso già abbastanza, e io non ho tempo da perdere. Corro verso la macchina con il bambino in braccio, lo sistemo sul suo seggiolino, faccio salire Bella nel bagagliaio e mi precipito verso il più vicino pronto soccorso, che per fortuna è a pochi chilometri di distanza.

Martino, sotto shock, ha smesso di piangere. Per tutto il tragitto non faccio altro che darmi dell’imbecille.

 

domenica 20 luglio 2025

2.4. Una piscina piena di miele (Di nuovo Gianni, finalmente!)

(luglio 1998)

Quattro giorni senza neppure una chiamata da Gianni. Mi sento dieci metri sottoterra, ma devo reagire. Oggi ho lavorato parecchio: di mattina sono andato a vedere le casette di Albugnano con Bruno, un affare interessante in cui ho deciso di investire anch’io un po’ di soldi; nel pomeriggio ho dato una mano a Mayra al vivaio, dove sono arrivati diversi clienti, quasi tutti mandati dalla signora Bozzoli a comprare delle varietà di rose particolari che nel frattempo mi sono procurato. A quanto pare il passaparola funziona.

Ora sono piuttosto stanco e ho voglia di riposarmi al fresco: la stanza del retrobottega è esposta a nord e si sta molto bene anche d’estate. Spalanco le due finestre, dove Mayra ha sistemato delle provvidenziali zanzariere, e mi distendo sul letto. Lei mi raggiunge quasi subito con un bicchiere di succo d’ananas: la ringrazio e lo vuoto in due sorsi.

Non devo permettere alla malinconia di prendere il sopravvento.

- Siediti qua - le dico, indicando il letto. Obbedisce.

- Niente masajio? - mi chiede.

- No, per ora no. Stiamo un pochino insieme e basta.

- D’acordo. Hai volia di parlare?

- Sì, se non ti dà fastidio.

- Ma figurati se me dà fastidiu.

- Torniamo al discorso di ieri: ti stavo dicendo che voglio provare a rinunciare al sesso e tu mi hai rifilato uno sculaccione per questo.

- Ma no che no devi renunciare! Sei louco?

- Mayra, credevo di averti spiegato come stanno le cose e pensavo che tu avessi capito.

- Eh, ho capito! Ma no si può fare come dici te, sei troppo jovene. Devi farlo e basta.

- Scusa, ma che stai dicendo? Cioè, secondo te devo fare sesso tanto per farlo? Con la prima persona che capita?

- No, con la prima no. Bisogna sceglierla bene. Ora ci pensiamo su.

Mi viene da ridere, nonostante tutto.

- Mayra, non si tratta di scegliere o pensarci su: è una cosa che succede, oppure non succede. E se non succede, non ci puoi fare proprio niente.

- E alora spiegami te, visto che io da sola no ci arivo: cosa c’era di così speciale con Antonha che no puoi fare con le altre?

- Tutto, ma proprio tutto.

- Questa no è una risposta: è come dire che un gato è un gato perché è un gato.

- A proposito, come sta Gatu Felipe?

- Benisimo, grazie: gli ho fatto una cufieta nuova, più legera, per l’estate. Ma no cambiare argomento, rispondimi ala mia domanda.

- Provo a spiegarti. La cosa speciale era che con Antonia mi lasciavo andare completamente.

- In che senso ti lassiavi andare?

- May, è davvero imbarazzante parlarne. Io credo… sì, credo di essere bello in certi momenti. Lascio vedere quello che c’è di bello nella mia anima. Ma lo lascio vedere solo se mi fido di una persona.

- E quindi tu ti fidavi di Antonha?

- Sì. Mi sono fidato di lei fin dal primo momento e ho continuato a farlo per un bel po’, anche se lei mi ha tradito e ha rifiutato la mia proposta di matrimonio.

- E tu ti fidavi lo stesso.

- Sì, mi fidavo.

Scoppia in una risata argentina.

- Che fesakioto che sei, Manu.

- Hai ragione, sono un gran bel fesso.

- Comunque io mi credevo che è la mujer che si lassia andare in quei momenti, no il maskio.

- May, devi sapere che fin dall’inizio è sempre stata lei a prendere l’iniziativa con me. Io più che altro la lasciavo fare.

- Ma te quindi non facevi gnente?

- No, calma, non è che non facevo niente: qualcosa facevo anch’io. Anzi, a un certo punto sono cresciuto e ho incominciato a prendere il gioco in mano.

- Il joco in mano, Prins?

- È un modo di dire, May, - rispondo spazientito - e poi scusami, non è che posso entrare nei dettagli: sforzati di immaginare. Lo so che per te non è facile, ma non è mica colpa mia se tu non ne sai niente di queste cose.

Mi mordo la lingua.

- Scusami, non volevo offenderti.

- No ti escusàr, è la verdade. Però qualche film di sex l’ho visto anch’io, eh. Io credo che ho capito una cosa: a te, più che fare sex, ti piace farti fare le kuze.

Avvampo. Mayra ha fotografato in un clic quella “passività sessuale” che lo psicologo aveva a suo tempo fatto emergere come uno dei tratti peculiari della mia personalità, spiegandomene il perché e il percome con lunghi e inutili giri di parole (la cosa mi era evidente anche senza che me lo dicesse lui). Scopro adesso che non c’è nessun bisogno di pagare uno psicanalista, se si ha a che fare con Mayra.

- In un certo senso sì - ammetto.

- Va bèn, ma certe kuze le so fare anch’io - dice candidamente lei.

Tiro su la testa e la fisso ad occhi sbarrati.

- Mayra, non sai di cosa parli. Almeno spero.

- Perché, cosa ci sarebe di strano?

- Tutto! Sarebbe tutto strano e completamente assurdo. Io non riesco nemmeno a immaginarti mentre fai certe cose. Oddio Mayra, non farmi pensare che le facevi anche tu… E con chi poi?

Lei, sbrigativa, taglia corto:

- ‘Scolta, Manu: secondo me lei ti faceva dei masaji o roba del genere, no?

- Eh, più o meno.

- Be’, i masaji li so fare anch’io.

Mi riappoggio contro il cuscino con un sospiro di sollievo: per fortuna questa povera donna non ha capito niente.

- Sì certo, May, tu sei bravissima a fare i massaggi.

- E alora lo vedi?

Mi viene di nuovo da ridere.

- Ma vedo cosa? Dai, su, per favore, siamo seri: sono due cose completamente diverse.

- Lo so che non è proprio uguale, eh! Ci arivo a capirlo. Ma intanto un masajio è meglio che gnente, no?

- È molto meglio che niente, May. Molto, molto meglio.

- E non ti lassi andare quando ti masajio?

- Sì, May, effettivamente mi lascio andare. Mi piace, mi rilassa e mi tira su di morale. Se a te fa piacere farmeli, a me fa piacere riceverli e siamo a posto. Non c’è proprio bisogno che tu faccia… altre cose, ecco. Né con me né con nessuno.

- E alora comincia a contentarti di questo. Poi si vederà.

- Va bene, Mayra: massaggiami ancora, mi fa molto piacere.

Mi distendo, sfilandomi la maglietta. Lei ricomincia a massaggiarmi.

- I pantaloni no te li togli, Manu?

- No, è meglio di no. Se per caso torna Carlos…

- Va ben, ho capito. Ti masajo la schiena e la pancia.

Chiudo gli occhi e mi rilasso completamente. Rimango in silenzio per un po’, poi mi decido a farle una domanda che ho in mente da tempo:

- Ma a te non manca mai il sesso, Mayra?

Mi guarda stranita, come se le avessi chiesto una cosa profondamente stupida.

- Cosa mi deve mancare a me, Manu? Io ho tutto.

- In che senso?

- Ho un lavoro belisimo, un irmùn come Carlos che mi vuole un sako di bene, una casa bunita con un gato, un orto con le verdure, delle brave galine che fano i uovi tutti i giorni, un bel jardìn con tanti fiori, una cane come Bela, e perfino te nel mio leto! Io credo davero che sono la mujer più fortunata del mondo, Prins.

Improvvisamente gli occhi mi si riempiono di lacrime. Fingo un attacco di starnuti: lei mi porge un fazzoletto.

- Hai preso freddo. To’, metiti questo sialle di lana sulle spalle, che lì ho finito.

Mi avvolgo intorno al collo lo scialle di lana morbida che mi tende. Ha un vago odore di vaniglia o qualcosa di simile, un profumo dolce e oppiato.

- Comunque Manu, - mi dice comprensiva - se ti manca così tanto il sex, è fàsil: basta che torni a letto con Antonha.

Resto completamente spiazzato da questa uscita.

- No May, adesso non posso più.

- Perché? Lei non vuole?

- No, lei non mi ha mai detto di no come amante. Il fatto è che sono cambiato io. Lei mi ha umiliato, come uomo e come padre. Prima ero solo un ragazzo, poteva avere un senso che mi trattasse con superiorità, ma adesso…

Mi interrompe con insolita severità.

- No Manu, non aveva senso nemeno prima. Se eri pikolo, doveva trattarti come una mamàn, no sukiarti tuto e poi tratarti come una superiora e andare a leto con i òmini più grandi.

Non posso evitare di ridere di nuovo: la sua descrizione è molto buffa, anche se perfettamente calzante.

- May, la superiora è una specie di capo delle suore, e credimi, Antonia non ha proprio niente di una suora.

- Eh, m’imagino.

- Comunque, May, adesso proprio non riuscirei più a lasciarmi andare con lei. Potrei farci sesso, questo sì: c’è sempre stata una fortissima attrazione fisica fra me e lei.

- E io cosa ti avevo detto? Puoi farci sex.

- Mayra, allora non mi sono spiegato. Fare sesso senza sentimento, come ti ho detto prima, non è comunicare, è solo scopare. Non m’interessa, e soprattutto non m’interessa con lei, visto che l’ho amata davvero. È inutile, non capisci.

- Invece credo che ho capito, Prins: a te ti manca che no puoi più farle vedere quella beleza che ci hai dentro.

La guardo stupito: ha colto perfettamente il punto.

- Esatto, Mayra. Io non intendo più assolutamente farle vedere quello che c’è di bello in me: lei lo ha visto e lo ha disprezzato. Quindi basta, discorso chiuso.

- È justo così, Manu. Però ti manca tanto farla vedere a qualcuno, quella beleza che ci hai dentro. Per questo volevi farla vedere a Janni, che ti vede belissimo di fuori.

Faccio segno di sì con la testa.

- Hai bisonho di trovare una persona che ti fidi, Prins.

- Eh, ma non c’è. Speravo di averla trovata in lui, ma sono solo uno stupido. E non ce n’è nessun’altra.

- Proprio nesuna?

Sto per rispondere “nessuna”, ma mi blocco all’improvviso e alzo lo sguardo.

- Cioè, in realtà ci sarebbe, ma…

- Ma?

- Ma non si può.

- E se non si può, paciencia.

Rimango in silenzio per alcuni secondi, poi le rivolgo la più idiota delle domande:

- E quindi come facciamo?

Si stringe nelle spalle.

- Spetiamo che ariva quela persona, Manu, e intanto faciamo altro.

Mi rilasso di nuovo e tento di non pensare più a niente. All’improvviso il mio cellulare squilla.

- Prinsy, te lo spengo, se no no puoi rilasarti.

Balzo a sedere sul letto.

- No, per carità, non spegnerlo: da’ qua.

Mayra, sospirando, me lo porge. Il cuore mi dà una botta di gioia quando vedo il numero.

Resisto alla tentazione di rispondere e fisso ipnotizzato il display, ascoltando gli squilli ed attendendo il bip finale che mi conferma che c’è un messaggio in segreteria. Intanto Mayra si è seduta con le mani intrecciate in grembo e mi guarda con aria rassegnata.

- No lo scolti, Prins?

- Sì Mayra, adesso lo ascolto.

- Adeso quando?

- Adesso.

- Ah, ho capito, vuoi che vado via io.

- No May, per favore, resta. Questo messaggio potrebbe essere l’ultimo e farmi molto male: perciò preferisco che ci sia tu al mio fianco.

- D’acordo, Manu. Dai, skiacia il pulsante.

Premo con dita esitanti il pulsante e metto il cellulare in vivavoce, in modo che senta anche Mayra.

- Emmanuel, - esordisce una voce insolitamente calma e controllata - io non so più cosa fare. Se tu non mi parli e non mi dai la possibilità di spiegare, io non posso farti capire come stanno le cose. Non è come sembra, credimi. Ti prego di rispondermi. Vorrei incontrarti per chiederti scusa e per spiegarti tutto. Ti prego, dammi questa possibilità. Un grosso bacio, amore mio.

Clic.

Rimaniamo entrambi in silenzio. Poi è Mayra a parlare.

- Sembra sinseru, Manu.

Annuisco lentamente.

- Sì, lo so, May: Gianni sa fingere molto bene. Altrimenti non ci sarei cascato come un pollo.

- Eh ma no mi pare che fa finta.

Un altro silenzio.

- Forse devi provare a parlarci, Prins, perkè ci stai tropo male e io non riesco a fare gnente per te.

- Non è vero, Mayra, tu sei importantissima per me e riesci sempre a farmi stare meglio.

- Melio sì, ma no bene. Provaci a parlare con lui, male che vada gli chiudi te la porta in facia, se ti ofende di nuovo.

Rimango a fissare il cellulare. Poi lo appoggio sul comodino e mi distendo di nuovo sul letto.

- Ci penserò, May. Ora, per favore, finisci il massaggio.

- D’acordo.

Ricomincia a massaggiarmi.

- Lo sai che sei molto più rilasato adesso? I muscoli sono molto più morbidi.

- Sì, lo so.

Mi sento come se stessi annegando in una piscina di miele, tanta è la dolcezza di quel contatto ristabilito.

Gianni è tornato a cercarmi.