mercoledì 30 luglio 2025

2.6. Pipi, papà! - Parte II (La situazione esplode)

Codice giallo. L’attesa è lunga, estenuante: arriverò molto tardi, Antonia sarà fuori di sé. Mentre siedo sulla poltroncina di plastica della sala d’attesa con il bambino in braccio, le dò un colpo di telefono e m’invento una scusa qualsiasi per giustificare il ritardo, sforzandomi di apparire del tutto naturale. Le dico che siamo andati a trovare Mayra alla serra e che lei ci ha intrattenuti con uno dei suoi dolci. Ci casca. Riattacco.

Finalmente arriva il nostro turno: entriamo nel pronto soccorso e veniamo raggiunti da un’infermiera corpulenta, quasi della stazza di Mayra, ma senza nulla della sua materna dolcezza. Porta gli occhiali da vista, ha i capelli raccolti in una stretta crocchia sulla sommità del capo e indossa la classica divisa bianca con casacca a maniche corte e pantaloni, con vistosi aloni di sudore sotto le ascelle nonostante l’aria condizionata. Mette a sedere Martino su un lettino, toglie il fazzoletto e gli osserva il piede.

- Come si è fatto male il piccolo? - chiede con tono inquisitorio. Tengo saldamente nella mia la mano di Martino, che sta tremando un po’, e le rispondo:

- Stava facendo qualche passo in un torrente e si è tagliato con qualcosa che era sul fondo.

L’infermiera mi squadra da capo a piedi:

- È lei il padre?

Imbarazzato, non sapendo come fare per non far sentire la risposta al bambino, faccio segno di sì con la testa dietro la sue spalle. Inaspettatamente, Martino risponde per me:

- Tio Manu.

- Ah, quindi è lo zio, non il padre. E perché ha detto di essere il padre?

Mi stringo nelle spalle, rassegnato.

- Come le è venuto in mente di lasciare solo un bambino così piccolo in un torrente?

- In quel punto l’acqua è bassa e quasi ferma, c’è una specie di laghetto… - inizio giustificandomi, ma subito un moto di ribellione mi assale: cosa diavolo vuole da me questa tizia? Come si permette di farmi questo terzo grado?

- Ad ogni modo non era solo - proseguo con tono asciutto - Camminavo con lui e lo tenevo per mano, e poi c’era anche il mio cane.

- Il suo cane?

- Senta, - le dico bruscamente - il bambino non era solo, okay? Non mi sembra il caso di perdere tempo a farmi il processo: si tratta di curare la ferita, disinfettarla ed eventualmente fargli un’antitetanica, perché non sono riuscito a capire con cosa si sia tagliato. È disposta a farlo oppure no?

- L’antitetanica senza dubbio. Lei ha messo il bambino in pericolo - insiste lei, fissandomi gelida. Sostengo il suo sguardo: non rispondo nulla, ma accenno a muovermi verso l’area del triage, intenzionato a chiedere l’intervento di un altro infermiere meno indisponente. Finalmente si allontana per andare a prendere garze, cerotti e disinfettanti e il necessario per l’iniezione.

- Ora - sussurro a Martino, prendendolo in braccio - questa signora ti fa passare la bua. Sentirai una piccolissima punturina, ma non fa per niente male.

Lacrime senza suono scorrono dagli occhi di Martino: gliele asciugo con il mio fazzoletto e gli copro le guance di baci.

- Sinniora bbutta - singhiozza. La penso esattamente come lui, ma non devo farglielo capire.

- Ma no, amore, non è brutta: è una brava signora che adesso ti cura il piedino.

Nasconde il viso sulla mia spalla. Lo tengo così mentre l’infermiera gli fa l’iniezione, che gli provoca un piccolo sussulto.

- Fatto, è già tutto finito - gli dico, stringendomelo al petto e accarezzandogli i capelli.

L’infermiera osserva la ferita.

- Temevo di dovergli dare due punti, ma fortunatamente, con una buona medicazione e una fasciatura stretta, potremo evitarlo.

Sospiro di sollievo: ci mancavano anche i due punti con relativa anestesia.

Martino sopporta stoicamente la medicazione, senza lamentarsi: lo ammiro moltissimo, per essere così piccolo dimostra una grande forza d’animo. Intanto non smetto neppure per un istante di tenergli la mano e di accarezzargli la testa.

Alla fine ringrazio l’infermiera, che, per quanto antipatica, ha fatto un ottimo lavoro; non mi risponde neanche: fa un cenno con la testa, gira sui tacchi e rientra dietro la porta a vetri. Prendo in braccio il bambino ed esco dal pronto soccorso, impaziente di raggiungere il parcheggio dell’ospedale dove ho lasciato il Suzuki con sopra Bella, ovviamente con i finestrini aperti e una ciotola d’acqua a disposizione.

- Tutto bene? - chiedo a Martino, dopo averlo sistemato nel suo seggiolino. Fa cenno di sì con la testa, ma gli angoli della sua bocca rivolti all’ingiù dicono il contrario. Gli accarezzo di nuovo la guancia, salgo al posto di guida e riparto.

Ed eccomi sulla via del ritorno. La mia cazzata quotidiana l’ho fatta: chissà cosa mi dirà fra poco Antonia, quante maledizioni mi tirerà dietro, chissà se mi lascerà ancora portare in giro Martino. Del resto, quello che potevo fare l’ho fatto: la ferita è stata curata e l’antitetanica scongiurerà il peggio. Gli faccio una carezza sul piedino fasciato, ma lui allontana la mia mano.

- Tio cattivo! - esclama.

- Hai ragione, Martino, - ammetto avvilito - sono uno zio sbadato, ma ti voglio bene. Vedrai che il piedino guarisce in fretta.

Martino, offeso, non risponde. Riaccendo lo stereo e rimetto su le cover lullaby che gli piacciono tanto, ma il bambino frigna insofferente. Spengo lo stereo e guido per qualche minuto in silenzio. Improvvisamente il cellulare squilla: l’ho collegato in vivavoce allo stereo. Allungo d’istinto il braccio per spegnerlo, ma poi penso che in fondo Martino è troppo piccolo per capire. Non mi va di essere offensivo con Gianni, non voglio attaccargli il telefono in faccia. Ritiro il braccio e rimetto la mano sul volante, fingendo indifferenza per non insospettire Martino, che mi sta osservando con la coda dell’occhio. La voce di Gianni si diffonde chiara nell’abitacolo.

- Emmanuel, amore, ci sei?... Stai guidando, vero? Sento il rumore del motore: metti in vivavoce, mi raccomando, non voglio che tu corra dei rischi per colpa mia. Lo so che non mi rispondi, ma ti prego di ascoltarmi. Non riattaccare, per favore.

Un sudore freddo mi imperla la fronte, mentre Martino si fa stranamente attento.

- Ti penso tutti i giorni, sai? Non ti dimentico neppure per un istante. Vorrei tanto incontrarti per spiegarti… spiegarti alcune cose importanti, ecco.

Martino si lascia sfuggire un gridolino.

- Oh, ma sento che non sei solo: c’è il tuo piccolino con te? Che vocina adorabile…

Mi mordo a sangue la lingua per evitare di rispondergli. Intanto Martino continua a cinguettare e Gianni si scioglie in brodo di giuggiole:

- Dio, che creaturina adorabile... Sei fortunato, amore, ad avere un marmottino tutto tuo. Io non potrò mai averne uno… io… io avevo soltanto te, di marmottino, e adesso ti ho perso…

Gianni singhiozza sommessamente. Il mio imbarazzo è alle stelle. All’improvviso Martino scoppia in una risata isterica, come quella con cui mi aveva accolto quando mi aveva visto per la prima volta . Sento Gianni che balbetta:

- Il tuo piccolino ride di me… Emmanuel, amore, temo proprio che dovrò dirti addio. Sto diventando un peso insopportabile per te: sto sommergendo nel ridicolo la tua vita…

Gianni piange in silenzio, mentre Martino ride sempre più divertito.

- Addio, amore mio: perdonami per tutto - conclude Gianni con un singhiozzo, e riattacca.

Martino sta ancora ridendo.

Il mio cuore esplode in mille pezzi. Rifaccio immediatamente il numero di Gianni: non risponde. Guido in stato confusionale per diversi minuti, con il sangue che mi martella alle tempie, continuando a rifare quel numero. C’è la segreteria telefonica: gli lascio un messaggio secco e perentorio:

- Gianni, richiamami, cazzo.

Mi attraversa la mente un pensiero estemporaneo: in questa coppia il maschio sono io.

Dopo qualche minuto che mi sembra un’eternità, finalmente sento squillare il cellulare. Tolgo il vivavoce e lo porto all’orecchio, incurante di qualsiasi regolamento stradale.

- Gianni.

- Emmanuel.

- Gianni.

Contatto ristabilito. Respiro profondamente e ricomincio:

- Scusami, non volevo offenderti. Il bambino…

- Oh, il tuo adorabile bambino… cosa vuoi che ne sappia, poverino: mi ha semplicemente giudicato ridicolo, come in effetti sono.

- Tu non sei ridicolo. Mi hai fatto del male, ma non sei ridicolo, cazzo! Hai capito?

- Amore mio, era proprio per spiegarti delle cose che volevo rivederti.

Sospiro profondamente.

- Quando?

- Quando puoi tu.

- Dopodomani alle quattro.

- Va bene.

- Dove?

- Vengo io a Torino, non voglio farti correre fin qua.

- No, a Torino no: preferisco venire io a Milano. Dove?

- Al bar Paradiso. Lo conosci?

- No, ma lo troverò.

- Ti sono grato dal profondo dell’anima, Emmanuel.

- A dopodomani.

Riattacco.

Sono madido di sudore, ho il cuore che sta battendo a casaccio senza più preoccuparsi di alternare sistole e diastole. Mi lascio cadere con la schiena contro il sedile. Accendo lo stereo e alzo di prepotenza il volume, senza concedere diritto di replica a Martino, che infatti tace. Gli allungo una carezza sui capelli.

- Ti fa male il piedino? - gli chiedo.

Scuote la testa con aria decisa, da vero uomo.

- Alla mamma cosa diciamo? Che hai inciampato in un sasso aguzzo?

Scuote di nuovo la testa.

- E cosa le diciamo allora?

La sua risposta mi lascia senza parole:

- Emanue amole.

Scoppia di nuovo a ridere.

- Emanue amole, Emanue amole, Emanue amole… - ripete ridendo, con tono canzonatorio.

Sarà anche mio figlio, ma è una creatura crudele, e questa è una caratteristica che non può avere ereditato da me. Inghiotto la rabbia e la frustrazione, cercando di ricordarmi che sono io in difetto: non sono stato abbastanza attento e ho lasciato che si facesse male, perciò mi merito questo ed altro. Del resto, sono contento che il bambino sia tornato di ottimo umore e stia ridendo, anche se ride di me.

E ora, “Emmanuel amore”, preparati a ricevere una lavata di capo da Antonia.

Sospiro senza dire più niente e mi concentro sulla guida, confortato dalla presenza di Bella nel bagagliaio e dalla prospettiva di cenare con Carlos e Mayra. Ma un’altra gioia, più intensa, mi sta sciogliendo il cuore come un ghiacciolo in un frigo spalancato: presto, molto presto, rivedrò Gianni.

 

 

venerdì 25 luglio 2025

2.5. Pipì, papà! - Parte I (Doveva essere una bella gita...)

(agosto 1998)

 

- Mi raccomando, Emmanuel, fa’ attenzione: il bambino è ancora molto piccolo. Ti prego di non metterlo in pericolo.

Un senso di insofferenza mi assale a queste parole: non ne posso più di essere considerato da Antonia come una specie di minorato mentale buono solo per farci sesso ogni tanto. Io vorrei essere stimato, non trattato quella condiscendenza che si adotta con gli individui limitati per non farli sentire troppo inferiori. Vorrei sentirmi come mi faceva sentire Gianni, unico e prezioso; mi rendo conto di quanto sia insostituibile l’ammirazione iperbolica che solo un gay riesce ad avere per un altro uomo: nessuna donna può farti sentire così. Diventa davvero una droga, della quale è difficilissimo fare a meno; e io, neanche a dirlo, ci sono cascato con tutte le scarpe.

Ma quella, purtroppo o per fortuna, è acqua passata. Il mio presente è qui, con questa donna e questo bambino, e se non fosse per l’amarezza che avvolge come un fumo tossico tutte le mie giornate, potrei quasi dire di essere felice; ma è inutile mentire a se stessi: non lo sono. Del resto la felicità è una chimera, bisogna essere contenti di quello che si ha, agli dèi bisogna chiedere non quello che si desidera, ma di liberarci del desiderio, eccetera eccetera. Vorrei almeno sentirmi sereno, ecco tutto: ma il tono di indulgente superiorità che Antonia ha sempre con me me lo impedisce, mi irrita.

- Antonia, - le dico - possibile che tu mi prenda sistematicamente per un imbecille? Lo so anch’io che è piccolo, e non è la prima volta che lo porto con me, mi pare, no?

- Sì, ma prima era diverso: non camminava ancora, lo mettevi nel marsupio e te lo portavi a spasso così per i boschi o in quei posti strani che piacciono a te.

- E certo, io sono il solito sfigato che lo porta in giro per i boschi o “in quei posti strani che piacciono a me”, e che, guarda caso, una volta piacevano anche a te: mica a San Sicario nella baita nuova o in piscina alla villa. Chissà perché, eh?

- Emmanuel, dai, non cominciare…

- Comunque sì, l’ho portato anche nei boschi e lungo il torrente: e allora? Qualche volta l’ho portato anche in montagna e una volta perfino al mare, e non gli è mai successo niente.

- Certo, perché mentre tu passeggiavi lui era appeso sulla tua schiena o sul tuo petto. Ma adesso che ha incominciato a camminare è tutto diverso: è in piena esplorazione, non sta mai fermo. Anche in casa non fa che cadere per terra dietro tutti gli angoli, dovrei avere mille occhi per non perderlo di vista. Perciò ti prego, sta’ attento.

- Ci starò attentissimo. Poi c’è anche Bella che mi dà una mano: Martino cammina volentieri aggrappato al suo pelo e lei è pazientissima con lui.

- Sì, è un bravo cane.

Bella conferma con un abbaio e un largo sorriso, lasciando penzolare di fuori la lingua. Ho spesso l’impressione che la mia cagna capisca l’italiano, o quanto meno comprenda il senso generale di quello che viene detto. Anche Martino adesso mi dà questa impressione: capisce molte parole e frasi semplici. È un bambino molto curioso, decisamente intelligente, comprende i rapporti di causa-effetto, sta incominciando a costruire frasi di due parole, che rappresentano, a quanto ho letto, una tappa piuttosto avanzata dello sviluppo logico-linguistico del bambino: più volte l’ho sentito dire “Mamma pappa”, oppure “Gatto palla”, quando vuole la pallina da lanciare a Gino, che ci gioca come un esperto calciatore dribblando gli ostacoli e lo fa ridere di gusto.

Naturalmente non conservo il minimo ricordo di come fossi io alla sua età, ma penso di essere stato un bambino piuttosto tonto, di quelli che stanno volentieri in braccio alla mamma e si guardano intorno con aria ebete e sognante. Mi piaceva giocare in giardino, questo sì, lo ricordo perfettamente: ho imparato a correre molto presto, e spesso mi sbucciavo le ginocchia cadendo; però, a quanto mi dice mia madre, non piangevo mai.

Antonia mi cede finalmente il bambino: lo prendo in braccio. Scalpita e strilla un po’, perché vorrebbe camminare da solo, ma non mollo la presa: lo sistemo sul sedile anteriore del Suzuki, nel suo apposito seggiolino per bambini piccoli, faccio salire Bella nel portabagagli, torno indietro a dare un bacio ad Antonia e metto in moto.

È una bella e calda giornata d’agosto: accendo lo stereo e inserisco nel lettore un disco che piace molto a Martino: si tratta della rivisitazione in chiave “lullaby” di alcuni famosi brani rock che mi piacevano molto e mi piacciono tuttora. Non avrei mai pensato, ad esempio, che i Nirvana si prestassero magnificamente alla realizzazione di cover da culla, ma in fondo non è affatto strano: c’è quasi sempre, nei giri melodici delle canzoni di Kurt, un che di infantilmente orecchiabile, una sorta di rievocazione autoconsolatoria di atmosfere dell’infanzia. Martino canticchia i Nirvana a modo suo, confermando con ciò di essere proprio mio figlio, e sembra piuttosto a suo agio nel suo comodo seggiolino.

Sono già le due e mezzo, e quindi non potremo andare lontano. Porterò Martino al torrente Orco, dove andavo spesso da ragazzo con sua madre a studiare: mi fa piacere rivedere quei luoghi. Ora che ho ristabilito un rapporto con Antonia e la nostra situazione ha raggiunto, bene o male, un punto di equilibrio, non mi fa più male ritornarci: anzi, sono contento di portarci mio figlio e il mio cane, anche se mi rendo conto con un’improvvisa fitta di amarezza che Tegame resta per me insostituibile. Voglio molto bene a Bella, ma è un rapporto diverso, per così dire esterno. Invece quel povero animale grigiastro e scolorito era una parte di me, una specie di alter ego canino. Questo pensiero offusca un po’ la serenità del mio stato d’animo, velandolo di un’ombra di malinconia. Del resto, da qualche tempo a questa parte, sono sempre triste, anche quando fingo di essere allegro.

Soffro ancora e sempre per la mancanza di Gianni. Soffro doppiamente perché non dovrei soffrire. Sono qui con mio figlio e vorrei essere fra le braccia di un uomo che potrebbe essere mio padre: che razza di uomo sono? Che razza di padre posso mai essere?

Sono settimane, sono mesi ormai che combatto contro me stesso per dimenticarlo. Mi ha dato una grossa mano lui stesso, trattandomi in quel modo indecente. Quindi sì, soffro, ma sopporto stoicamente la sofferenza. Purtroppo so bene che è la sua telefonata quotidiana ad aiutarmi a sopportarla: ogni volta che squilla il cellulare e vedo quel numero, il mio cuore fa una capriola. Ora ho cambiato atteggiamento: non riattacco più immediatamente, ma ascolto in silenzio quello che ha da dirmi, senza rispondere. Poi riattacco. In questo modo lui ha la certezza che l’ho ascoltato: non voglio farlo sentire umiliato o respinto. Gli voglio bene, dannazione, e non mi va che soffra più di tanto. Ma no, non tornerò a cercarlo: lascio che la nostra ferita sanguini placidamente, annegandoci entrambi in un lago di torpore malinconico. Affoghiamo tenendoci per mano: è un modo come un altro per restare insieme.

Ed eccolo, il mio torrente, dove si allarga liscio e tranquillo in un’insenatura accanto alla riva erbosa che così spesso sceglievo per andarci a studiare, da solo o con Antonia, ma sempre in compagnia di Tegame. Fortunatamente Bella ha gli stessi gusti di Tegame e scodinzola felice, mentre faccio scendere Martino sull’erba e lo porto per mano verso l’acqua. Trotterella al mio fianco a piccoli passi ancora un po’ incerti, reggendosi con l’altra mano alla coda di Bella. Ci sediamo sulla sponda e lo prendo in braccio; osservo il placido scorrere dell’acqua, azzurra e trasparente, con il mento appoggiato sui suoi riccioli rossi, e mi sento pervaso da una strana commozione. Ad un tratto il bambino si agita nervosamente, mettendosi una manina sui pantaloni all’altezza dei genitali: Antonia gli ha messo il pannolino mutandina prima di affidarmelo, ed inoltre ne ho altri due di ricambio nella sacca con la stampa di Pluto che porto con me, dedicata interamente alle cose di Martino; tuttavia ho l’impressione che lui stia cercando di comunicarmi che vorrebbe fare la pipì, e non nel pannolone. Infatti mugola:

- Pipì, papà.

Resto sbalordito: non tanto per il messaggio che mi sta comunicando, dal quale risulta una precoce capacità di riconoscere lo stimolo della vescica e un’altrettanto precoce volontà di controllarlo, ma per le ultime due sillabe. Ad ogni modo lo assecondo, lo faccio alzare e lo porto in una zona riparata dai cespugli (precauzione inutile, ma io e mio figlio siamo tipi molto riservati), gli abbasso i pantaloncini e il pannolino e lo aiuto, sostenendolo, a fare la pipì “da uomo”, come desidera. Alla fine appare molto soddisfatto e sorride mentre gli tiro di nuovo su i pantaloncini e lo riporto a sedere sulla sponda.

- Martino, - gli dico - sei stato bravissimo a chiedere di fare la pipì come i grandi, sai?

Annuisce con convinzione.

- Però hai detto anche un’altra cosa… non hai detto solo “pipì”, vero?

Alza le spalle, come se fosse una cosa di nessuna importanza.

- Cos’hai detto, Martino? - insisto.

- Pipì - risponde lui.

- Sì, ma dopo cos’hai detto?

- Pipì! - ripete.

- Ho capito che hai detto “pipì”, ma dopo hai detto anche un’altra cosa. Non ho sentito bene, puoi dirmela di nuovo?

- Pipìììì! - sbotta lui esasperato, con l’aria di voler chiudere definitivamente quel discorso.

Sospiro rassegnato. Sono sicuro di avere sentito bene, ma da lui non saprò nulla, si è chiuso come un’ostrica. Mi porterò appresso questo dubbio per chissà quanto tempo.

- Vieni, - gli dico - andiamo a fare due passi dentro l’acqua: qui è bassa e tranquilla.

Bella, come al solito, capisce al volo il senso delle mie parole ed è ben felice di assecondarle: si tuffa nel torrente e sguazza con salti pesanti fra le pietre bianche e lisce del fondale, sollevando spruzzi e tentando di azzannare qualche pesce di passaggio, ovviamente senza successo. Accompagno Martino sulla riva di una piccola piscina naturale dall’acqua verdeazzurra, profonda poco più di venti centimetri: mi sembra il posto più adatto per fargli fare una passeggiata nell’acqua.

- Pecci! - esclama il bambino, indicando alcuni avannotti di barbo o di cavedano.

- Sì, ci sono i pesciolini - confermo sorridendo.

Mi tolgo le scarpe da ginnastica e gli sfilo le scarpine, appoggiandole sulla riva asciutta. Poi lo prendo per mano e avanzo verso l’acqua, cercando di indurlo a camminare nella piccola piscina azzurra, ma il bambino recalcitra e oppone resistenza.

- Dai, Martino, vieni con zio Manu.

- Pappa!

- Sì, dopo ti dò il tuo omogeneizzato di frutta, ma prima ci rinfreschiamo i piedi. Guarda Bella come salta nell’acqua!

Poco convinto, esitante, il bambino si lascia persuadere e inizia a muovere qualche passo accanto a me. Cerco di fargli appoggiare i piedini sui sassi più larghi e lisci. Martino incomincia a prendere gusto alla passeggiata; camminiamo per mano con i piedi nell’acqua per qualche minuto, quando all’improvviso lui lancia un piccolo grido.

- Che succede? - gli chiedo allarmato.

- Ahia pede!

Lo prendo in braccio e il cuore mi si ferma in petto: il suo piedino sinistro sanguina abbondantemente, ferito da non so cosa. Cerco di rassicurarlo, ma in realtà sono in uno stato confusionale e ho il cuore a mille. Scruto nell’acqua per capire cosa possa avere ferito il piede di Martino, ma non vedo niente: probabilmente un maledetto vetro, che si confonde con la trasparenza verdeazzurra dell’acqua. Il bambino, ovviamente, si mette a piangere; Bella interrompe immediatamente i suoi giochi acquatici e ci raggiunge abbaiando.

- Zitta, Bella! - intimo severo - Non capisci che così lo spaventi ancora di più?

Bella ammutolisce immediatamente e scodinzola avvilita.

- Non è niente, Martino, adesso lo zio ti fascia il piedino e poi andiamo a farci curare.

Prendo il bambino in braccio e lo porto sulla sponda: poi estraggo dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto pulito di cotone che per fortuna ho portato con me e gli fascio il piedino cercando di chiudere la ferita e di non farla sanguinare troppo, anche se so bene che per evitare il tetano è meglio lasciare che il sangue scorra: ma ne è scorso già abbastanza, e io non ho tempo da perdere. Corro verso la macchina con il bambino in braccio, lo sistemo sul suo seggiolino, faccio salire Bella nel bagagliaio e mi precipito verso il più vicino pronto soccorso, che per fortuna è a pochi chilometri di distanza.

Martino, sotto shock, ha smesso di piangere. Per tutto il tragitto non faccio altro che darmi dell’imbecille.

 

domenica 20 luglio 2025

2.4. Una piscina piena di miele (Di nuovo Gianni, finalmente!)

(luglio 1998)

Quattro giorni senza neppure una chiamata da Gianni. Mi sento dieci metri sottoterra, ma devo reagire. Oggi ho lavorato parecchio: di mattina sono andato a vedere le casette di Albugnano con Bruno, un affare interessante in cui ho deciso di investire anch’io un po’ di soldi; nel pomeriggio ho dato una mano a Mayra al vivaio, dove sono arrivati diversi clienti, quasi tutti mandati dalla signora Bozzoli a comprare delle varietà di rose particolari che nel frattempo mi sono procurato. A quanto pare il passaparola funziona.

Ora sono piuttosto stanco e ho voglia di riposarmi al fresco: la stanza del retrobottega è esposta a nord e si sta molto bene anche d’estate. Spalanco le due finestre, dove Mayra ha sistemato delle provvidenziali zanzariere, e mi distendo sul letto. Lei mi raggiunge quasi subito con un bicchiere di succo d’ananas: la ringrazio e lo vuoto in due sorsi.

Non devo permettere alla malinconia di prendere il sopravvento.

- Siediti qua - le dico, indicando il letto. Obbedisce.

- Niente masajio? - mi chiede.

- No, per ora no. Stiamo un pochino insieme e basta.

- D’acordo. Hai volia di parlare?

- Sì, se non ti dà fastidio.

- Ma figurati se me dà fastidiu.

- Torniamo al discorso di ieri: ti stavo dicendo che voglio provare a rinunciare al sesso e tu mi hai rifilato uno sculaccione per questo.

- Ma no che no devi renunciare! Sei louco?

- Mayra, credevo di averti spiegato come stanno le cose e pensavo che tu avessi capito.

- Eh, ho capito! Ma no si può fare come dici te, sei troppo jovene. Devi farlo e basta.

- Scusa, ma che stai dicendo? Cioè, secondo te devo fare sesso tanto per farlo? Con la prima persona che capita?

- No, con la prima no. Bisogna sceglierla bene. Ora ci pensiamo su.

Mi viene da ridere, nonostante tutto.

- Mayra, non si tratta di scegliere o pensarci su: è una cosa che succede, oppure non succede. E se non succede, non ci puoi fare proprio niente.

- E alora spiegami te, visto che io da sola no ci arivo: cosa c’era di così speciale con Antonha che no puoi fare con le altre?

- Tutto, ma proprio tutto.

- Questa no è una risposta: è come dire che un gato è un gato perché è un gato.

- A proposito, come sta Gatu Felipe?

- Benisimo, grazie: gli ho fatto una cufieta nuova, più legera, per l’estate. Ma no cambiare argomento, rispondimi ala mia domanda.

- Provo a spiegarti. La cosa speciale era che con Antonia mi lasciavo andare completamente.

- In che senso ti lassiavi andare?

- May, è davvero imbarazzante parlarne. Io credo… sì, credo di essere bello in certi momenti. Lascio vedere quello che c’è di bello nella mia anima. Ma lo lascio vedere solo se mi fido di una persona.

- E quindi tu ti fidavi di Antonha?

- Sì. Mi sono fidato di lei fin dal primo momento e ho continuato a farlo per un bel po’, anche se lei mi ha tradito e ha rifiutato la mia proposta di matrimonio.

- E tu ti fidavi lo stesso.

- Sì, mi fidavo.

Scoppia in una risata argentina.

- Che fesakioto che sei, Manu.

- Hai ragione, sono un gran bel fesso.

- Comunque io mi credevo che è la mujer che si lassia andare in quei momenti, no il maskio.

- May, devi sapere che fin dall’inizio è sempre stata lei a prendere l’iniziativa con me. Io più che altro la lasciavo fare.

- Ma te quindi non facevi gnente?

- No, calma, non è che non facevo niente: qualcosa facevo anch’io. Anzi, a un certo punto sono cresciuto e ho incominciato a prendere il gioco in mano.

- Il joco in mano, Prins?

- È un modo di dire, May, - rispondo spazientito - e poi scusami, non è che posso entrare nei dettagli: sforzati di immaginare. Lo so che per te non è facile, ma non è mica colpa mia se tu non ne sai niente di queste cose.

Mi mordo la lingua.

- Scusami, non volevo offenderti.

- No ti escusàr, è la verdade. Però qualche film di sex l’ho visto anch’io, eh. Io credo che ho capito una cosa: a te, più che fare sex, ti piace farti fare le kuze.

Avvampo. Mayra ha fotografato in un clic quella “passività sessuale” che lo psicologo aveva a suo tempo fatto emergere come uno dei tratti peculiari della mia personalità, spiegandomene il perché e il percome con lunghi e inutili giri di parole (la cosa mi era evidente anche senza che me lo dicesse lui). Scopro adesso che non c’è nessun bisogno di pagare uno psicanalista, se si ha a che fare con Mayra.

- In un certo senso sì - ammetto.

- Va bèn, ma certe kuze le so fare anch’io - dice candidamente lei.

Tiro su la testa e la fisso ad occhi sbarrati.

- Mayra, non sai di cosa parli. Almeno spero.

- Perché, cosa ci sarebe di strano?

- Tutto! Sarebbe tutto strano e completamente assurdo. Io non riesco nemmeno a immaginarti mentre fai certe cose. Oddio Mayra, non farmi pensare che le facevi anche tu… E con chi poi?

Lei, sbrigativa, taglia corto:

- ‘Scolta, Manu: secondo me lei ti faceva dei masaji o roba del genere, no?

- Eh, più o meno.

- Be’, i masaji li so fare anch’io.

Mi riappoggio contro il cuscino con un sospiro di sollievo: per fortuna questa povera donna non ha capito niente.

- Sì certo, May, tu sei bravissima a fare i massaggi.

- E alora lo vedi?

Mi viene di nuovo da ridere.

- Ma vedo cosa? Dai, su, per favore, siamo seri: sono due cose completamente diverse.

- Lo so che non è proprio uguale, eh! Ci arivo a capirlo. Ma intanto un masajio è meglio che gnente, no?

- È molto meglio che niente, May. Molto, molto meglio.

- E non ti lassi andare quando ti masajio?

- Sì, May, effettivamente mi lascio andare. Mi piace, mi rilassa e mi tira su di morale. Se a te fa piacere farmeli, a me fa piacere riceverli e siamo a posto. Non c’è proprio bisogno che tu faccia… altre cose, ecco. Né con me né con nessuno.

- E alora comincia a contentarti di questo. Poi si vederà.

- Va bene, Mayra: massaggiami ancora, mi fa molto piacere.

Mi distendo, sfilandomi la maglietta. Lei ricomincia a massaggiarmi.

- I pantaloni no te li togli, Manu?

- No, è meglio di no. Se per caso torna Carlos…

- Va ben, ho capito. Ti masajo la schiena e la pancia.

Chiudo gli occhi e mi rilasso completamente. Rimango in silenzio per un po’, poi mi decido a farle una domanda che ho in mente da tempo:

- Ma a te non manca mai il sesso, Mayra?

Mi guarda stranita, come se le avessi chiesto una cosa profondamente stupida.

- Cosa mi deve mancare a me, Manu? Io ho tutto.

- In che senso?

- Ho un lavoro belisimo, un irmùn come Carlos che mi vuole un sako di bene, una casa bunita con un gato, un orto con le verdure, delle brave galine che fano i uovi tutti i giorni, un bel jardìn con tanti fiori, una cane come Bela, e perfino te nel mio leto! Io credo davero che sono la mujer più fortunata del mondo, Prins.

Improvvisamente gli occhi mi si riempiono di lacrime. Fingo un attacco di starnuti: lei mi porge un fazzoletto.

- Hai preso freddo. To’, metiti questo sialle di lana sulle spalle, che lì ho finito.

Mi avvolgo intorno al collo lo scialle di lana morbida che mi tende. Ha un vago odore di vaniglia o qualcosa di simile, un profumo dolce e oppiato.

- Comunque Manu, - mi dice comprensiva - se ti manca così tanto il sex, è fàsil: basta che torni a letto con Antonha.

Resto completamente spiazzato da questa uscita.

- No May, adesso non posso più.

- Perché? Lei non vuole?

- No, lei non mi ha mai detto di no come amante. Il fatto è che sono cambiato io. Lei mi ha umiliato, come uomo e come padre. Prima ero solo un ragazzo, poteva avere un senso che mi trattasse con superiorità, ma adesso…

Mi interrompe con insolita severità.

- No Manu, non aveva senso nemeno prima. Se eri pikolo, doveva trattarti come una mamàn, no sukiarti tuto e poi tratarti come una superiora e andare a leto con i òmini più grandi.

Non posso evitare di ridere di nuovo: la sua descrizione è molto buffa, anche se perfettamente calzante.

- May, la superiora è una specie di capo delle suore, e credimi, Antonia non ha proprio niente di una suora.

- Eh, m’imagino.

- Comunque, May, adesso proprio non riuscirei più a lasciarmi andare con lei. Potrei farci sesso, questo sì: c’è sempre stata una fortissima attrazione fisica fra me e lei.

- E io cosa ti avevo detto? Puoi farci sex.

- Mayra, allora non mi sono spiegato. Fare sesso senza sentimento, come ti ho detto prima, non è comunicare, è solo scopare. Non m’interessa, e soprattutto non m’interessa con lei, visto che l’ho amata davvero. È inutile, non capisci.

- Invece credo che ho capito, Prins: a te ti manca che no puoi più farle vedere quella beleza che ci hai dentro.

La guardo stupito: ha colto perfettamente il punto.

- Esatto, Mayra. Io non intendo più assolutamente farle vedere quello che c’è di bello in me: lei lo ha visto e lo ha disprezzato. Quindi basta, discorso chiuso.

- È justo così, Manu. Però ti manca tanto farla vedere a qualcuno, quella beleza che ci hai dentro. Per questo volevi farla vedere a Janni, che ti vede belissimo di fuori.

Faccio segno di sì con la testa.

- Hai bisonho di trovare una persona che ti fidi, Prins.

- Eh, ma non c’è. Speravo di averla trovata in lui, ma sono solo uno stupido. E non ce n’è nessun’altra.

- Proprio nesuna?

Sto per rispondere “nessuna”, ma mi blocco all’improvviso e alzo lo sguardo.

- Cioè, in realtà ci sarebbe, ma…

- Ma?

- Ma non si può.

- E se non si può, paciencia.

Rimango in silenzio per alcuni secondi, poi le rivolgo la più idiota delle domande:

- E quindi come facciamo?

Si stringe nelle spalle.

- Spetiamo che ariva quela persona, Manu, e intanto faciamo altro.

Mi rilasso di nuovo e tento di non pensare più a niente. All’improvviso il mio cellulare squilla.

- Prinsy, te lo spengo, se no no puoi rilasarti.

Balzo a sedere sul letto.

- No, per carità, non spegnerlo: da’ qua.

Mayra, sospirando, me lo porge. Il cuore mi dà una botta di gioia quando vedo il numero.

Resisto alla tentazione di rispondere e fisso ipnotizzato il display, ascoltando gli squilli ed attendendo il bip finale che mi conferma che c’è un messaggio in segreteria. Intanto Mayra si è seduta con le mani intrecciate in grembo e mi guarda con aria rassegnata.

- No lo scolti, Prins?

- Sì Mayra, adesso lo ascolto.

- Adeso quando?

- Adesso.

- Ah, ho capito, vuoi che vado via io.

- No May, per favore, resta. Questo messaggio potrebbe essere l’ultimo e farmi molto male: perciò preferisco che ci sia tu al mio fianco.

- D’acordo, Manu. Dai, skiacia il pulsante.

Premo con dita esitanti il pulsante e metto il cellulare in vivavoce, in modo che senta anche Mayra.

- Emmanuel, - esordisce una voce insolitamente calma e controllata - io non so più cosa fare. Se tu non mi parli e non mi dai la possibilità di spiegare, io non posso farti capire come stanno le cose. Non è come sembra, credimi. Ti prego di rispondermi. Vorrei incontrarti per chiederti scusa e per spiegarti tutto. Ti prego, dammi questa possibilità. Un grosso bacio, amore mio.

Clic.

Rimaniamo entrambi in silenzio. Poi è Mayra a parlare.

- Sembra sinseru, Manu.

Annuisco lentamente.

- Sì, lo so, May: Gianni sa fingere molto bene. Altrimenti non ci sarei cascato come un pollo.

- Eh ma no mi pare che fa finta.

Un altro silenzio.

- Forse devi provare a parlarci, Prins, perkè ci stai tropo male e io non riesco a fare gnente per te.

- Non è vero, Mayra, tu sei importantissima per me e riesci sempre a farmi stare meglio.

- Melio sì, ma no bene. Provaci a parlare con lui, male che vada gli chiudi te la porta in facia, se ti ofende di nuovo.

Rimango a fissare il cellulare. Poi lo appoggio sul comodino e mi distendo di nuovo sul letto.

- Ci penserò, May. Ora, per favore, finisci il massaggio.

- D’acordo.

Ricomincia a massaggiarmi.

- Lo sai che sei molto più rilasato adesso? I muscoli sono molto più morbidi.

- Sì, lo so.

Mi sento come se stessi annegando in una piscina di miele, tanta è la dolcezza di quel contatto ristabilito.

Gianni è tornato a cercarmi.

 

venerdì 18 luglio 2025

2.3. Tre giorni senza Gianni (...ma con Mayra e le sue erbe!)

- Tajète Redcèri.

Mayra si siede sul letto, apre il catalogo e me lo mette trionfalmente sotto gli occhi.

La foto raffigura un magnifico cespuglio di Tagete Red Cherry, con fiori opulenti di un intenso color ciliegia scuro. Leggo sul catalogo che questa varietà si distingue per la sua ininterrotta fioritura da inizio estate fino ai primi freddi dell’autunno.

- È davvero spettacolare - confermo.

- Va bene nei bordi dei jardini e anche nei balconi, sta benisimo dapertutto. E poi, Prinsy, è facilisima da coltivare: è bunita e adatta a tutti, anche ai prinsipianti.

- Approvato, May: sarà il nostro prossimo ordine.

- Sì, lo facio domani matina, ma poi volio anche seminarla. I semi si mettono coperti da marzo ad aprile oppure diretamente in terra alla fine di aprile o inizio majio. Poi bisonha diradare i semenzali o trapiantarli con un spassio di quindici-venti centimetri tra una piantina e l'altra…

Interrompo il suo appassionato flusso di coscienza botanica con un’obiezione qualunque.

- Però il Tagete non è una pianta perenne: a te non piacciono le piante annuali.

- No è che no mi piaciono, è che mi affeziono e mi dispiace che muoiono. Però certe volte col clima justo sopravivono. Vediamo cosa posso fare con la serra, magari ci riesco, come con le surfinie… Ne sono sopravivute tante.

- Se non ci riesci tu, Mayra, non ci può riuscire nessun altro.

- Esajerato.

- Non sono affatto esagerato.

Sbadiglio.

- Hai sonno? Vuoi che vado via?

- No, resta per favore. Non ho sonno: è che questo caldo mi stanca, e poi oggi ho faticato un po’ a spostare i vasi degli agrumi: Carlos aveva altro da fare.

- Potevi chiamarmi.

- Ma no, May, un po’ di esercizio fisico mi fa bene: sto diventando un rammollito, guarda qua, non c’è più traccia di addominali.

Alzo la maglia del pigiama e mostro quel che resta delle mie vecchie tartarughe.

- No è mica tanto male quelo che vedo, Prinsy…

- Macché, faccio schifo rispetto a un tempo: dovrei tornare in palestra, ma alla fine cosa ci vado a fare? Non faccio più le foto con Gianni.

- Però le fai con quel altro fotografo, Guido.

- Sì, ma lui mi fotografa quasi sempre vestito. Non è che mi servano a molto gli addominali, con lui.

- Melio così, che nudo no andavi mica bene.

- Mayra, - sbotto - non so più come dirtelo: non ero nudo. Non mi sono mai fatto fotografare nudo da Gianni, okay? Anzi, più in generale, Gianni non mi ha mai visto nudo.

- Eh ma ci avevi solo le mutandine adosso. Le ho viste le foto, sai?

- Certo che avevo le mutande, era un servizio fotografico per l’intimo maschile! Eccheccazzo.

- Ma perkè ti arabi, Prinsy?

- Scusa, sono di cattivo umore.

Mayra sospira.

- Sei sempre di cativo umore, Manu.

- Non sempre, ma spesso.

- Eh, moltisimo spesso.

Si alza e fa cenno a Bella di seguirla.

- Meto fuori Bella che deve fare i suoi bisonhi. Ieri li ha fatti sul tapeto.

- Colpa mia: mi sono dimenticato di portarla fuori.

- Sei distratto, Manu.

- Sì, hai ragione, sono distratto.

Sospira di nuovo ed esce, seguita da Bella.

Rimasto solo, nella piacevole penombra della mia stanza, rimugino sul senso del mio malessere. Non mi è difficile capire da cosa deriva: è un confuso senso di allarme generato dal fatto che da tre giorni non ricevo più telefonate da Gianni. Era scontato che prima o poi si stancasse, visto che non gli rispondo mai, ma sotto sotto speravo che la cosa continuasse come una specie di gioco che in qualche modo ci teneva in contatto. Mi manca moltissimo, ma non posso permettermi di abbassare la guardia: lo avevo fatto, e all’improvviso mi è arrivato un cazzotto in piena faccia che mi ha lasciato tramortito per settimane. Sapevo di essere innamorato di Gianni, ma non immaginavo di poterci stare così male. Anche adesso respingo l’idea di poter soffrire per una persona che si è atteggiata a maestro di vita, estorcendo la mia stima e la mia fiducia, per poi ripagarla con una volgarità di cui non lo credevo capace. Davvero, collegare Gianni con l’idea della volgarità era per me qualcosa di impensabile: lui così fine, colto, ironico, elegante… Eppure la sua proposta è stata di una inaudita volgarità, tanto che mi è venuto da vomitare per lo sdegno, lo shock e il disgusto. Non avrei più potuto vederlo dopo quelle parole, lo sapevo bene: e infatti non solo non l’ho più rivisto, ma non ho più comunicato con lui. Eppure, nonostante tutto, quelle sue telefonate quotidiane alle quali non rispondevo, quei suoi messaggi disperati in segreteria, mi scaldavano il cuore e me lo facevano sentire ancora vicino, nell’unico modo purtroppo possibile. Del resto, non è vero che io non comunicassi con lui: comunicavo in modo fin troppo eloquente attraverso il mio silenzio.

Ora perché ha smesso di cercarmi?

Come si suol dire, se ne sarà fatto una ragione e avrà puntato verso altri lidi, il che mi conferma che non mi amava veramente. Mi domando come abbia potuto simulare così bene, come abbia fatto io a cascarci come un salame, e anche per quale diavolo di motivo lui non mi abbia portato a letto, visto che non si trattava di niente di serio; lo dice lui stesso che riesce a fare sesso solo con le avventure occasionali: bene, a quanto pare io non ero niente di più, e allora non capisco perché mi abbia, per così dire, risparmiato.

Nel frattempo mi sono visto “Il bell’Antonio”, il vecchio film interpretato da Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, e ho capito un po’ di cose sul conto di Gianni. Cioè, più che altro ho capito che mi ha mentito, perché lui per me non provava niente di simile.

Mayra rientra con Bella. La sua vista mi conforta: lei sì mi scalda il cuore, perché sono assolutamente certo del suo affetto.

- Mi fai uno dei tuoi massaggini? - le chiedo con il tono di un cucciolo afflitto. Quel tono ha sempre l’effetto di farla sciogliere come il burro, per cui sono certo della sua risposta affermativa.

- Certo che stai diventando ben vissiato, te…

- Hai proprio ragione.

Mentre lei va a prendere l’olio da massaggio, mi distendo sul letto a pancia in giù, con le braccia incrociate sotto la fronte. Mayra è di ritorno e incomincia a massaggiarmi, partendo come sempre dalle spalle.

- Il collo è tuto rigido.

- Sì, sono teso e nervoso.

- Rilasciati.

- Si dice rilassati, May.

- E va ben, alora rilasati.

- Non mi chiedi perché sono così teso?

- No, perkè lo so già.

- Ah sì? E cosa sai?

- Che ti manca il sex.

- May, mi dispiace, ma non hai capito niente.

- No?

- No. La fai troppo semplice.

- Ah la facio semplice. Perché invece com’è?

Sbuffo spazientito.

- Non è il sesso che mi manca. Se fosse così, scusami se te lo faccio notare, non credo che avrei grosse difficoltà a soddisfare le mie esigenze.

- Certo che no, perché sei bunito. Nesuna mujer ti direbbe di no.

- Ora non esageriamo, però diciamo che non mi sarebbe difficile trovarne una, o anche più di una.

- O anke un òmo.

- Anche.

- E quindi?

- E quindi lo vedi che non è così.

- Alora spiegami.

- È difficile spiegartelo. Il fatto è che il sesso di per sé non è gran che, se non serve per comunicare con una persona. Non m’interessa, non mi è mai interessato neppure da ragazzo.

- E alora non puoi comunicare in un altro modo?

- No, Mayra, è questo che non capisci: quello che mi manca è proprio questo tipo di comunicazione.

- Apunto: allora lo vedi che avevo rajone, ti manca il sex.

- Sì ma cazzo, il sesso per comunicare, non per fare sesso! Ci vuole tanto a capirlo?

- Ho capito, Manu, ma se vuoi comunicare con il sex hai bisonho del sex. Ci vuole tanto a capirlo?

- Oh cavolo May, non riesco proprio a spiegarmi. Siamo sempre lì: se non le hai mai fatte, queste cose, come puoi capirle?

- No lo so, Prinsy, ma se mi spieghi melio forse capisco.

Sospiro.

- Allora Mayra, ti basti sapere che è una cosa talmente rara che io l’ho provata solo con Antonia, anche se a volte mi è sembrato di poterla provare anche con un paio di altre persone. Però la vera comunicazione l’ho avuta solo con lei. È l’unica donna alla quale io abbia concesso tutto me stesso, anima e corpo.

- Solo a lei?

- Sì, solo a lei. Con lei non fingevo e non recitavo, ero sempre me stesso, anche a letto. È proprio questo il problema: io sono stato così solo con lei.

- Insoma Prins, hai paura che non ti sucede mai più con nesun altro.

- Sì, è proprio così, Mayra. Ho paura che non mi succeda mai più.

- Questo l’ho capito. E pensavi che ti sucedeva di nuovo con Janni.

- Sì, perché lui diceva di amarmi. Quella notte che abbiamo trascorso insieme senza fare nulla, stando solo abbracciati, ho sentito che stavamo comunicando in un modo profondissimo… Insomma, mi sono davvero illuso. Ma mi sbagliavo: lui mi ha chiuso la porta in faccia nel più brutale dei modi, e io adesso mi sento malissimo.

- Perkè ti manca lui, no il sex.

- No, non solo: sto male anche perché sono preoccupato. Il risultato è che ora non riesco più a fare sesso con nessuno, e tu capisci che è davvero un po’ troppo presto alla mia età. Insomma, io ci sto provando a farne a meno, ma non so se sarò in grado di riuscirci, ecco tutto.

- Ma no ci devi provare proprio per gnente, Manu! - esclama sdegnata Mayra, dandomi un poderoso sculaccione.

- Ahia! Stai diventando manesca, May.

- Sì, skusame, mi lassio trassinare dal entusiasmo.

- Certo che se li tratti così, i maschi…

- Io no li tratto proprio, i maski: te sei un’ecessione. Ti ho fato màl?

- Un pochino. Ora massaggiami piano e con dolcezza per farti perdonare, eh?

- Il sederoto?

- Certo: è a lui che hai dato un ceffone.

- D’acordo. Va bene così?

Sì, va davvero bene: mi sto di nuovo eccitando, in aperta contraddizione con le mie affermazioni sull’impossibilità di fare sesso. Ma resto sdraiato a pancia in giù e non le dico nulla: non si accorgerà di niente.

- È perfetto. - le dico - Speriamo che non arrivi Carlos.

- Cosa c’entra Carlos?

- Eh, c’entra.

- Mi sa che è proprio qui.

Si sentono i passi pesanti di Carlos sulla ghiaia.

- Basta, continuiamo un’altra volta.

- Ma perkè?

- Va bene così, dammi retta.

Mi alzo di colpo dal letto e mi infilo velocemente la maglietta e i jeans. Quando la maniglia della porta gira io sono seduto con l’aria più innocente del mondo su una delle due sedie impagliate azzurre di fronte al tavolino, intento a sfogliare un catalogo con Mayra, seduta di fianco a me.

- Ciao ragazzi, - esordisce Carlos - cosa state guardando di bello?

- I tajète! - risponde Mayra con entusiasmo. Confermo con un convinto cenno del capo.

- Sì, Mayra ha scoperto una varietà spettacolare.

Carlos va in cucina e prende una birra dal frigo, la stappa e la beve direttamente dalla bottiglia, da vero uomo. Poi si siede sul letto.

- Come va con il nuovo fotografo? - mi chiede.

- Abbastanza bene, ma non benissimo. Voglio dire, le foto che mi faceva Gianni erano molto più particolari, le riviste di moda le preferivano. Insomma, guadagno così così.

- Non ho ancora capito cosa è successo con Gianni.

- È un po’ difficile da spiegare, Carlos. Abbiamo litigato, mi ha offeso.

- Se ti ha offeso hai fatto bene a mandarlo a stendere. Però il punto è che guadagni di meno.

- Diciamo che non è l’aspetto più spiacevole della faccenda, almeno per me. Per fortuna riesco a tirare su qualcosa come aiutante e socio di Bruno.

- Meno male, Principe: il vivaio vende un po’, ma non abbastanza.

Mayra, punta sul vivo, replica:

- Irmùn, devi darmi tempo! No è che in pochi mesi posso fare miracoli, eh.

- Figurati, May: tu stai facendo anche troppo. Non è mica per noi due che mi preoccupo, ma per il Principe, che deve restituire il prestito ai suoi.

Mayra abbassa lo sguardo per un attimo, ma subito lo rialza decisa.

- Io un’idea ce l’avrei.

- Che idea, May? - le chiedo incuriosito.

- Ecco Prinsy, ci hai presente quele piante che la jente se le fumano?

- Vuoi dire il tabacco?

- Makè tabaco. Io dico quele che dopo uno si sente tutto strano.

Carlos e io ci guardiamo sbalorditi.

- Vuoi dire la cannabis? - azzardo, incredulo.

- Vuoi dire la marijuana? - mi fa eco Carlos.

- Sì, credo che si kiama così. Insoma Prins, è inutile che mi guardi con quei oki da galina, no è mica veleno!

- Occhi da gallina?!

- Sì, perkè? Tuti tondi che sembrano dele palline di vetro colorato.

Carlos scoppia a ridere.

- Mayra, - le dico stizzito - le galline non hanno gli occhi blu! E poi i polli gli occhi ce li hanno di lato, non tutti e due davanti, senza contare che l’espressione delle galline…

- Manu, ‘scolta - mi interrompe sbrigativa, per nulla interessata all’espressione delle galline - Hai presente il libro di quela mujer che mi hai regalato?

- Santa Ildegarda?

- Sì, quela che le ricette delle piante gliele racontava di notte un anju, che poi kisà chi era per davero. Be’, lei dice che quel erba là fa bene a la salute. E alora che male c’è?

Sospiro, cercando di non perdere la pazienza. Carlos continua a ridere.

- Mayra, non è questione che sia bene o male: è il-le-ga-le. Se ci beccano ci denunciano.

Mayra, sorprendentemente, alza le spalle, per nulla impressionata.

- Legàl no vuole mica dire justo, Prinsy. La polissia e i judici di solito condanano i inocenti, mica i colpevoli. Quindi basta che lo faciamo di nascosto.

- Mayra, ma cosa dici?

- No ti preocupare, Manu, facio tuto io. So dove nasconderle, quele piante: le nascondo così bene che nemeno te riesci a trovarle. Anzi guarda, no te lo dico neanke, dove sono. Quindi per te è come se no ci sono, va bene?

- Ma no che non va bene! E poi, anche se fosse, a chi le vendiamo? Io non so a chi smerciare quella roba!

Carlos smette di colpo di ridere.

- Principe, ti dirò, l’idea di mia sorella non è per niente male, sai?

- Eh?

- Frequentando Michelle ne ho conosciuta parecchia, di gente interessata a “quella roba”, come la chiami tu. Perciò, per me è sì.

Ingoia l’ultimo sorso di birra, si alza dal letto e mi fa un cenno di saluto.

- Ci vediamo dopo, vado a mettere al coperto i vasi: minaccia un temporale.

Resto a bocca aperta. Ricambio meccanicamente il cenno di saluto, mi alzo e mi lascio di nuovo cadere sul letto.

- Voi due siete pazzi - dico.

Però, ripensandoci… se perfino Ildegarda ci dà la sua benedizione…

Mayra osserva dalla finestra Carlos che si allontana, tira la tendina e si siede sulla sedia accanto al letto.

- Guardiamo un catalogo?

- E va bene, guardiamo un catalogo.

Il mio cellulare squilla: balzo istintivamente a sedere e lo afferro, osservando il display.

- Prinsy, cosa ci hai? Sembra che ti ha morso un serpe.

Il mio cuore si contorce per la delusione.

- È Bruno - dico tetro.

Premo il tasto del cellulare e mi preparo ad ascoltare la voce squillante di Bruno.

- Pronto, Manuèl?

- Ciao, Bruno.

- Ti va di venire a vedere quelle casette di Albugnano domani?

- D’accordo: dove ci troviamo?

- Davanti al mio ufficio alle nove. Va bene?

- Benissimo, Bruno: a domani.

- Ciao, neh!

Bruno riattacca. Appoggio desolato il cellulare sul comodino.

- E ben?- chiede Mayra - No ti fa piacere che ti ha chiamato Bruno?

- Ma sì, certo che mi fa piacere… È solo che…

- È solo che no è Janni.

Accenno ad un sì con la testa. Il mio cuore è pesante, ho voglia di dimenticare tutto dormendo. Mayra, che ovviamente ha capito il mio stato d’animo tenta di distrarmi:

- Hai ancora volia di parlare, Manu?

- No, adesso no, May. Era un discorso interessante, ma continuiamo domani.

- D’acordo. Alora una fettina di dolce?

- Sì, grazie, quella sì.

- Te la porto.

- Mi stai mettendo all’ingrasso, May.

- Eh, hai volia a ingrasare tu, con quel pancino così lissio…

Sorrido pallidamente e appoggio la nuca sul cuscino, fissando il soffitto.

 

 

venerdì 11 luglio 2025

2.2. Corpi al sole (Ma è uno stalker?...)

(luglio 1998)

 

- Buttati, piccolo! Non ti succede niente, c’è qua zio Michele che ti prende.

Martino, dopo un attimo di esitazione, si lascia cadere in piscina, prontamente accolto da mio fratello, che lo afferra per la vita e lo sostiene, mentre il bambino strilla, ride e sputacchia.

Michele si avvia al largo, verso la parte profonda della piscina, con Martino aggrappato alle spalle.

Mia madre appoggia sulle ginocchia il giallo di Agatha Christie che sta leggendo ed osserva la scena.

- Stanno benissimo insieme, vero? - mi chiede sorridendo.

Annuisco senza rispondere.

Siamo seduti su due sedie a sdraio ai bordi della piscina della nostra villa: mi sono lasciato convincere, non so neppure io perché, a presenziare ad uno dei primi bagni di mio figlio. Ho lasciato Bella alla serra in compagnia di Mayra e Carlos, con cui sta benissimo, e mi sono trascinato a casa dei miei molto malvolentieri, immaginando già di trascorrere un pomeriggio imbarazzante. Oltre tutto non sono affatto di buon umore: la ferita lasciata nel mio animo da Gianni stenta a chiudersi; credo che siano lo stupore e lo shock ad impedirmelo, non c’è altra spiegazione: di solito, quando capisco che una persona mi ha preso in giro, la rimuovo completamente dai miei pensieri; non capisco per quale motivo io non riesca a dimenticare questo abile simulatore.

Ed eccomi qua, seduto al bordo della piscina sotto un provvidenziale ombrellone (il sole picchia forte oggi). Naturalmente io sono “zio Manu”, e altrettanto naturalmente Martino mi ignora, completamente assorbito dal rapporto con l’altro zio. Per fortuna non c’è nessun altro, perché mi sarebbe ben difficile nascondere il disagio che provo; vorrei essere in qualsiasi altro luogo del pianeta in questo momento: se ci fossero degli ospiti me la filerei all’inglese. Mia madre si volterebbe a cercarmi: “Ma dov’è finito Emmanuel?” Ops, sparito.

Mia madre, già: questa cara donna è un grosso enigma per me. Mio fratello conosce la verità, per cui il problema con lui non si pone, ma lei, almeno in teoria, non ne sa nulla: la osservo con la coda dell’occhio, stupito dall’apparente naturalezza con cui accetta la presenza di Martino alla villa. Tutto questo mi è incomprensibile. Sono convinto che mia madre sappia molto più di quanto non voglia dare a vedere, ma che abbia deciso che la cosa più saggia da fare sia recitare questa commedia degli equivoci, una specie di copione di Menandro in cui ha riservato un ruolo anche a me: è convinta che io, in qualche modo, “debba” avere a che fare con questo bambino, pur non lasciando trapelare alcun sospetto circa la mia parentela con lui. Sembra dare per scontato che, se Michele è il padrino del piccolo, io non possa esimermi dal fare lo zio putativo. Questo, in un certo senso, mi agevola, perché non devo nascondere più di tanto la mia frequentazione della casa di Antonia, ma mi mette anche in serio imbarazzo, perché non ci credo nemmeno un po’ che mia madre avverta questa esigenza nei confronti del figlio di un estraneo. Ad ogni modo faccio finta di niente (che altro potrei fare?) e rivolgo un sorriso finto alla piscina, con l’aria di apprezzare la scena che si svolge sotto i miei occhi.

- Hai messo la crema solare al bambino? - chiede mia madre a Michele.

- Sì, certo: con la pelle che ha, se non gli metto la crema a protezione totale si spella come un peperone.

Oggi mia madre indossa un elegante costume da bagno intero color turchese, che mette in risalto la sua figura snella e ancora pressoché perfetta, e ha gli occhi riparati da un paio di occhiali scuri di marca, con le lenti piuttosto grandi, che le stanno benissimo. In testa, sui capelli biondi ben pettinati e riuniti con un fermaglio sulla nuca, porta un largo cappello di paglia che la protegge dal sole (ha la pelle delicata come la mia). Mia mamma è ancora molto bella. Quanto a me, ho optato per un paio di calzoncini da bagno molto castigati di cotone verde militare, lunghi quasi fino al ginocchio; non mi va di fare “quello sexy” in presenza di mio figlio, e poi non ho più voglia di assumere atteggiamenti sexy in generale: l’ho fatto con Michelle perché le piacevo così, lo facevo per scherzo perché me lo chiedeva Gianni, ma adesso Michelle se n’è andata, Gianni non c’è più, almeno fisicamente, e il mio nuovo fotografo non sente l’esigenza di ritrarmi seminudo, per cui la questione è chiusa. Diciamo che, episodicamente, mi diverto a farlo un po’ con Mayra, specie in occasione dei suoi frequenti massaggi, ma è una specie di scherzo bonario fra di noi, che nessuno dei due prende sul serio, e che comunque serve a risollevarmi un po’ il morale. Rifletto sul fatto che farmi mettere le mani addosso da lei mi piace moltissimo e non mi imbarazza: è piuttosto strano, dato che non provo alcuna attrazione fisica per lei; ma alla fine va bene così: è un contatto sensuale ma innocente, su cui nemmeno il geloso Carlos trova più da ridire. Ogni tanto spalanca di colpo la porta della cameretta attigua all’ufficio, convinto di coglierci in flagrante, ma resta sempre deluso: non succede mai niente di proibito fra me e sua sorella. Del resto, sono stato costretto a spiegargli che attualmente il mio cuore è occupato da un uomo di mezza età, cosa che non ha mancato di stupirlo e sconcertarlo. Gli ho assicurato che la storia è finita e che sto cercando di dimenticarlo, ma se n’è andato scuotendo la testa, poco convinto. Purtroppo Carlos mi conosce bene.

- Non ti tengono caldo quei pantaloncini così spessi e lunghi? - chiede mia madre.

- No, mamma, vanno benissimo. Certo, ci mettono un po’ ad asciugare quando faccio il bagno.

- Sono quasi da vecchietto, tesoro, non da ventenne. Alla tua età, e con il fisico che hai, dovresti portare degli slip corti e aderenti, come tuo fratello.

- No, grazie, mamma.

- Sei sempre così serioso da qualche tempo a questa parte… E pensare che quella benedetta donna della Dalmasso insiste ancora di averti visto praticamente nudo su una rivista! Dice che indossavi solo una specie di tutina di plastica completamente trasparente, si vedeva tutto.

- È pazza, mamma: non ero io, te l’ho detto almeno dieci volte. E poi, che razza di abbigliamento sarebbe una tutina di plastica trasparente? Dev’essersela sognata.

- Ma sì, lo so, è assurdo: perfino tu saresti ridicolo con una tuta di plastica addosso, anche se con il tuo fisico ti sta bene qualsiasi cosa. Insomma, che razza di fotografo farebbe delle foto del genere? Dovrebbe essere un depravato, un pervertito, un…

- Un gay, mamma.

- Ecco, sì, forse un gay: ma solo un pazzo si metterebbe nelle mani di un fotografo gay senza niente addosso o quasi, a meno che…

- A meno che non fosse gay anche lui.

- Appunto: e non è certo il tuo caso.

- Eh no.

- E quindi non eri tu.

Il sillogismo di mia madre fa acqua da tutte le parti, ma mi guardo bene dal dirglielo.

- La Dalmasso è molto indispettita dal fatto che io non le creda, sai? Ne ha fatto un punto d’onore. Ha detto che cercherà quella benedetta rivista e mi farà vedere le foto. Non sa più dove l’ha messa, altrimenti lo avrebbe già fatto.

Sudo freddo: confido nel mio angelo custode, che certamente avrà nascosto quella rivista in fondo a una cassapanca, sotto un mucchio di stracci. Cerco di scherzarci su.

- Bene, mamma, se la trova falla vedere anche a me: sono proprio curioso di conoscere il mio sosia.

Mia madre ride e cambia argomento.

- Comunque, tesoro, non trovi che Michele sia nato per fare il padre?

- Sì, assolutamente.

- E pensare che non ha figli. Per fortuna Laura è ancora giovane e sembra che sia guarita bene. I medici sono molto ottimisti.

Non dico nulla. Non ho mai avuto la minima fiducia nell’ottimismo dei medici in casi del genere. A mio parere non hanno la più pallida idea dell’esatta natura della malattia con cui hanno a che fare, per cui il loro ottimismo e il loro pessimismo valgono quanto un tiro di dadi. Mi limito ad augurare in cuor mio a Laura tutta la fortuna del mondo.

- Il bambino è bellissimo, non trovi?

- Sì, è molto bello.

- Ha qualcosa che mi ricorda un po’ te da piccolo, sai? Non nel modo di fare, quello no. Lui è molto più serio: tu eri un tesoro, ma un vero tontolone, sempre con le testa fra le nuvole, e ridevi sempre.

- Un idiota, insomma.

- Ma no, che dici? Non un idiota, un amore di bambino. Lui non ride quasi mai: è un bambino curioso, osservatore e attento. Dev’essere molto intelligente.

- Sì, pare anche a me. A volte mi imbarazza.

- Ad ogni modo sono molto stupita del fair play di tuo fratello: ho sempre saputo che era un ragazzo forte e razionale, ma non avrei mai pensato che potesse rimanere in così buoni rapporti con la sua ex moglie.

- Non ancora ex, mamma: non si sono separati ufficialmente.

- Sì, ma è come se lo fossero: vivono in due case diverse e ciascuno ha la sua vita. Eppure Michele è voluto rimanere in contatto con lei, anche se è evidente che lei lo ha tradito quasi subito, perché il bambino è nato troppo presto.

- Già.

- Non so, c’è qualcosa che mi sfugge: non capisco come abbia fatto a perdonarla così presto. Non mi stupisce la nobiltà d’animo di tuo fratello, perché lo so che è un ragazzo con una mente superiore, ma mi pare che si stia attaccando un po’ troppo a quel bambino che non è figlio suo, non ti pare?

- Sì mamma, effettivamente si comporta né più né meno come se fosse suo padre.

- D’accordo, Antonia gli ha chiesto di fargli da padrino, ma Michele stravede per quel piccolo. Intendiamoci, il bambino piace molto anche a me, ma lo trovo… strano, ecco, piuttosto strano.

- Non posso darti torto, mamma.

Dalla piscina arriva la voce di Michele:

- Ehi, Emmanuel, ci butti la palla?

Mi alzo, vado a prendere una palla di gomma rossa appoggiata alla parete della cabina e la lancio a mio fratello, che la usa per giocare con Martino, ma anche per insegnargli a nuotare; il bambino si aggrappa con le manine alla palla e impara a galleggiare senza accorgersene e senza patemi d’animo. È intelligente, mio fratello.

- Buttati anche tu - mi dice Michele.

- Non ne ho voglia - incomincio, ma poi mi lascio attirare da quell’azzurro invitante, prendo lo slancio e mi tuffo di testa. Raggiungo i due con poche bracciate, sollevando qualche spruzzo: subito Martino protesta strillando.

- Hai paura di un po’ d’acqua? - gli dico ridendo.

- Tio butto! - esclama Martino.

- No dai, brutto no: - lo corregge Michele - se mai cattivo.

- Come no, cattivissimo: spruzzo veleno! - dico con voce cavernosa, sgranando gli occhi. Poi immergo completamente la testa e riemergo con la bocca piena d’acqua, spruzzandola in faccia a Martino. Naturalmente il bambino reagisce con uno strillo indignato e mi picchia in faccia.

- Butto! Butto!

Rido e mi allontano dalla coppia, raggiungendo il bordo della piscina con qualche bracciata.

- Che figlio scemo che ho fatto - bofonchio fra me, scrollando i capelli per asciugarmeli un po’.

Mia madre, che ha osservato la scena, sorride divertita. Torno a sedermi sulla mia sdraio.

- Certo che gli diventerai antipatico, tesoro, - mi dice lei - se gli fai degli scherzi così stupidi.

- Eh pazienza, mamma: me ne farò una ragione - le rispondo, spostando la sdraio al sole per asciugarmi meglio. A dirla tutta, io e mio figlio ci siamo antipatici a vicenda.

All’improvviso il mio cellulare, che è rimasto appoggiato sul tavolino sotto l’ombrellone, squilla.

- Emmanuel, non rispondi?

- No, mamma, non ho voglia di essere disturbato: lascialo squillare. Prima o poi la pianterà.

Dopo una quindicina di squilli il chiamante desiste, ma si sente distintamente il bip della segreteria telefonica.

- Credo che ti abbia lasciato un messaggio in segreteria, tesoro.

Mi alzo sbuffando, raggiungo l’ombrellone e prendo in mano il telefono. So già perfettamente di chi si tratta e la mia insofferenza è soltanto simulata: in realtà ho il batticuore. Ho sempre una segreta paura di ascoltare l’ultimo messaggio, quello di addio: perciò esito. Alla fine premo il pulsante e ascolto il messaggio passeggiando nei dintorni dell’ombrellone per non insospettire mia madre, che troverebbe piuttosto strano il fatto di vedermi allontanare per ascoltare il messaggio di nascosto.

Purtroppo Gianni è in evidente stato confusionale e strilla così forte che è difficile silenziare la sua voce, per quanto io tenga il cellulare incollato all’orecchio.

- Emmanuel, amore, ma perché non mi rispondi mai? Lo capisci, vero, che così mi porti alla disperazione? Oh, lo so che lo fai per punirmi, e fai bene, perché me lo sono meritato, ma devi darmi la possibilità di spiegarti… Devi, capisci? Tutti hanno diritto a una seconda possibilità, e io non posso vivere se tu non me la concedi. Ti prego, ti supplico, ti scongiuro, cucciolo caro, rispondimi!

Riattacco fingendo la massima indifferenza. Mio fratello e il bambino, impegnati nei giochi in piscina, non possono avere sentito nulla, ma mia madre era piuttosto vicina a me e temo che qualcosa possa esserle arrivato all’orecchio. Mi risiedo al mio posto facendo finta di niente. Per un po’ lei rimane in silenzio, poi mi chiede:

- Tutto bene, tesoro?

- Sì, mamma, perché?

- Non so, mi è parso che la telefonata ti abbia turbato.

- Chi, me? Ma se non ho detto una parola. Io ho solo ascoltato: se mai era lui che era turbato.

Ed eccola qua, la solita uscita da perfetto imbecille. Arrossisco, ma per fortuna il rossore può essere attribuito al sole.

- Lui? - chiede inevitabilmente mia madre.

- Eh sì, era un uomo.

Mia madre tace, non sapendo come formulare la prossima domanda. Poi raccoglie le idee e ci prova:

- Comincio a capire perché non volevi rispondergli: dev’essere un terribile scocciatore.

- Più o meno.

- È uno stalker?

- Diciamo che in un certo senso lo è.

- Guarda che lo stalking è un reato: se vuoi puoi denunciarlo.

- Ma no, mamma, non è il caso.

- Cioè, non è che io abbia sentito gran che, ma i toni che usava… Dio mio… erano patetici.

- In effetti quest’uomo è un soggetto molto melodrammatico.

- Per carità, tesoro, non dargli corda: tipi del genere possono essere pericolosi.

- Ma infatti non gli ho risposto, mamma: più di così…

- E hai fatto benissimo. Ma tu guarda un po’ che razza di persone ci sono in giro…

Scuote la testa e, per fortuna, si rimette a leggere “Corpi al sole”, un titolo che mi sembra molto appropriato alle circostanze.

Mi adagio contro lo schienale con un sospiro di sollievo e chiudo gli occhi, ascoltando distrattamente le voci di Michele e di mio figlio che giocano in piscina e facendo il bilancio della situazione.

Le buone notizie sono tre: la prima, che Gianni mi ha telefonato; la seconda, che non mi ha detto addio; la terza, che prima o poi questa giornata finirà.